martedì 21 febbraio 2012

il dolore non è un ciao - l'opera letteraria di valter veltroni

Perché un uomo politico importante si mette a fare lo scrittore mediocre?
Ho cominciato a interessarmi al Walter Veltroni letterato un giorno che ero in redazione a minimum fax, e qualcuno buttò lì la proposta di chiedere a lui – allora sindaco di Roma – una prefazione per un libro che stavamo mandando in stampa: una raccolta di discorsi dei Nobel per la pace. Io scalpitai. Ma mi resi subito conto che c’era qualcosa di più sotto quest’irritazione a pelle. E che da un certo punto di vista mi sarebbe legittimare quest’idiosincrasia nei confronti del Veltroni uomo di cultura, altrimenti sarei sembrato un qualunquista della peggior specie, uno snob.
La cosa non fu così difficile. Un paio di giorni dopo mandai alle varie persone che lavoravano in casa editrice una mail che aveva come oggetto Piccolo quiz editoriale.
Nella mail c’era un elenco di quasi settanta titoli di libri. Da E li chiamano disabili di Candido Cannavò a Oltre il giardino di Jerzy Kosinski a Mo’ je faccio er cucchiaio di Francesco Totti a Donne dell’altro mondo. Dodici donne celebri si raccontano al soprannaturale di Stefano Mastrosimone… Nella mail chiedevo: cos’hanno in comune tutti questi libri? La risposta era abbastanza impressionante. Legati apparentemente da nulla (gialli, raccolte di aforismi, biografie, libri di storia locale, qualunque branca dello scibile umano), aveva però uno stigma condiviso. Portavano in dote tutti la prefazione di Walter Veltroni. E l’elenco non era nemmeno completo.
Il libro dei Nobel che si intitola Costruire la pace alla fine riuscì a non avere nessuna prefazione: i nomi di Mandela e Luther King si presentavano giustamente da sé. Mentre il mio giochino fu ripreso da vari siti, dal Riformista e dal Corriere, e da Enrico Mentana a Matrix che pose proprio a Veltroni in studio una domandina velenosa sulla sua prolificità prefativa.
Da allora il suo nome dopo “prefazione di” è quasi scomparso dalle copertine, per accedere direttamente al posto d’onore: i caratteri cubitali da autore di grido.
Questa sfida a distanza poteva anche finire qui. Mi sembrava talmente squalificante il profilo culturale di onniprefatore che interessarmi ancora a quello che aveva scritto Veltroni mi sembrava un giochino da nerd. Ma, come spesso continuò a accadermi, leggendo le sue cose, mi era sembrato di vedere altri livelli di analisi possibile oltre la denuncia della sciatteria un po’ nepotistica di chi deve mettere il suo nome ovunque. Mi pareva insomma che ci fosse dell’altro, oltre il desiderio di potere e di presenzialismo. Mi sembrava interessante leggere politicamente la sua produzione letteraria.
Avevo ragione. Credo di essere ad oggi uno dei più attenti se non il più attento lettore di Veltroni in Italia. Ho letto per intero i suoi romanzi La scoperta dell’alba e Noi, il suo monologo poetico Quando l’acrobata cade, entrano i clown, il suo saggio programmatico del Pd Una nuova stagione, la sua inchiesta-memoir L’inizio del buio, i suoi racconti Senza Patricio, la sua piccola biografia su Luca Flores Il disco del mondo, e ho sfogliato anche il resto, le biografie di Bob Kennedy e Berlinguer, il suo libro di storia della televisione, oltre essermi sorbito per anni le sue recensioni ai film sul Venerdì di Repubblica, e altre decine di interventi sui giornali (interviste, editoriali, e soprattutto molte lettere – il suo genere preferito).
All’inizio di questa immersione ero semplicemente infastidito che un politico (che tra parentesi era il mio sindaco e che potevo considerare anche lodevole per alcune scelte politiche) potesse licenziare dei libri così malconci. Nella recensione che feci alla Scoperta dell’alba partivo tratteggiando una sorta di declino dei tempi: una volta erano gli scrittori come Sciascia o Calvino a impegnarsi politicamente, oggi sono i politici di professioni che aspirano a uno scranno letterario. Ero un po’ indignato: il fatto che chiunque oggi, sia un comico, un cantante, un ballerino, oggi possa ritenersi degno di una patente di scrittore solo in virtù della sua popolarità mi sembrava il sintomo di quella “strana sfera gassosa che è il contesto culturale e politico oggi in Italia (un paese dove, per dire, la direzione dei programmi culturali della tv nazionale è affidata a Gigi Marzullo e quella dei servizi parlamentari a Anna La Rosa), dove il pensiero che la letteratura abbia una sua autorevolezza autonoma, una sua specificità, e delle sue regole da imparare e sperimentare prima contro se stessi e poi rispetto a un editore e un pubblico di lettori magari indulgenti, non sfiora per niente nemmeno Veltroni”, così scrivevo.
Mi rodeva, e molto, perché qualcuno incapace pretendeva di fare lo stesso mio lavoro. E allora – come un falegname che mostra a un bricoleur della domenica gli errori più rozzi che ha combinato (guarda quanta colla che esce qui! quest’asse così non regge! occorre prima scartavetrare e poi lucidare!), anch’io segnavo una a una le pecche strutturali della Scoperta dell’alba: 1) La mancanza di differenziazione dei personaggi, che parlavano tutti con una lingua media bassamente lirica; 2) la ridondanza e l’enfasi del discorso; 3) l’incapacità di dar corpo ai personaggi e di gestirli nel tempo. Se avessi dovuto riassumere in un’evidenza il deficit principale della sua scrittura (ero buono) “mi sembrava l’applicazione di una retorica specificamente politica all’ambito letterario, ossia l’ignoranza assoluta di quel monito che si ripete alla nausea nei corsi di scrittura, Show! Don’t tell! Ogni sentimento in un romanzo dovrebbe essere declinato in azione, dialogo, descrizione, in una costruzione che renda questi sentimenti piuttosto che enunciarli; mentre la retorica politica richiede proprio l’opposto: la chiarezza, l’immediata corrispondenza tra parola e riferimento, la psicagogia ottenuta attraverso anche la ridondanza. Un piano dove il simbolo dev’essere sempre trasparente, e il più possibile univoco”. 4) La reverenzialità nei confronti della letteratura, trattata come un feticcio. Le citazione, gli omaggi, i “come dice quel grandioso scrittore” si sprecano nei libri di Veltroni.
Al tempo stesso nella Scoperta dell’alba c’era anche un altro elemento però che mi pareva da evidenziare per una lettura politica di questo scadente oggetto letterario. Il protagonista scopre che il padre ha abbandonato la famiglia perché era entrato in clandestinità. Questa rimozione dei conflitti degli anni ’70 è un filo rosso che attraversa tutta la visione veltroniana, culturale, letteraria e politica. Rimozione che per me poteva essere sintetizzata nell’idea di intitolare una via a Roma a Paolo Di Nella, giovane militante di destra ucciso a sprangate nel 1981, e a cui Veltroni definito nella targa a suo nome, una “Vittima della violenza”. Così, senz’altro aggettivo a connotarlo. Come se a Roma, o in Italia, fosse passato uno tsunami incomprensibile.
Questa stessa incapacità di comprendere la nostra storia e questa stessa rimozione dei conflitti (il che vuol dire anche disconoscimento delle differenze e delle soggettività) è la cifra più accesa anche degli altri suoi testi. Dal micro manifesto politico del PD, La nuova stagione, di cui se si fa un’analisi linguistica ci si rende conto di avere a che fare con un monstrum. Le parole in questo suo libretto non si capisce proprio cosa significhino. Sembra un esercizio di neolingua orwelliana: ve lo ricordare il “partito a vocazione maggioritaria”. Tutta la retorica della Nuova stagione, una congerie di quelli che in sociolinguistica si chiamano “plastismi” se la prendeva con i “vecchi linguaggi” del Novecento, con “le identità”. Uno poteva anche comprendere il tentativo di aggregare invece che disperdere, ma sarebbe stato bello già allora ricordare allo staff veltroniano che il linguaggio non funziona così, una lingua – Saussure docet – identifica per opposizione. Un significato o è oppositivo o non è.
Questa pervicace mancanza di capacità di riconoscere le differenze arriva a dei vertici di irresponsabilità nel momento in cui Veltroni comincia la sua parabola politica discendente. Ossia quando, dopo le regionali in Sardegna, si dimette da segretario del PD. Dopo aver minato il fragile equilibrio del governo Prodi con l’idea del nuovo partito a vocazione maggioritaria, dopo aver lasciato Roma alla destra orribile di Alemanno, dopo aver perso le elezioni del 2008, a Veltroni non sembra comunque arrivato il tempo di fare un bilancio dei fallimenti, e scrive invece un monologo teatrale in versi sulla tragedia dell’Heysel. Riscriviamolo: un poema sull’Heysel! Pubblicato da Einaudi, che si vergogna di spacciarlo per poesia, giustamente. Il libro è una perla assoluta. Va preso e letto tutto a alta voce, perché è un’operazione terrificante molto di più dei duetti di Berlusconi e Apicella. Eppure: recensioni su Repubblica, letture con grandi attori all’Auditorium e alla Fiera del Libro.
Quando cade l’acrobata, entrano i clown è tutto un versificare adolescenziale, ingolfato, bolso che associato al nome Walter Veltroni crea un involontario risultato comico; quando non grottesco, trattandosi di morti a cui rendere omaggio. 
Ci sono immagini come questa: Da quel giorno alla parola giocare si trova, come sinonimo, morire. / Un mondo che non è capace di giocare è condannato all’infelicità. / E alla violenza. / Quella che ruba la vita e prende a bottigliate il futuro. Ci sono versi in cui l’andatura prosastica diventa un po’ insostenibile: Boniek tocca a Paolo Rossi ma la palla è oscurata da un sei. / 0636911-399707-3960781-3962772 / Migliaia di matite, migliaia di fogli di carta, sono volati in quella notte di mano in mano /Nelle case degli italiani che avevano ascoltato la voce sicura di Bruno Pizzul. Ci sono associazioni presuntamente suggestive ma francamente difficili da decifrare: Cominciano a volare degli oggetti. / Sono aste di bandiere, anacronistici ombrelli. Ci sono versi icastici che stentano a non risultare caricaturali: Il dolore, viene proclamato verso la fine, non è un ciao.
Ma l’analisi di sociologia politica mi sono reso conto a un certo punto non bastava. Perché Veltroni aveva bisogno di scrivere? Perché aveva bisogno di parlare di tutti questi morti: desaparecidos, morti dell’Heysel, Bob Kennedy, Berlinguer, Luca Flores, i morti degli anni di piombo e ora nell’ultimo uscito, Alfredino Rampi e Roberto Peci? Proprio la lettura dell’Inizio del buio mi ha illuminato su un aspetto psicanalitico del personaggio Veltroni. La conclusione che si può trarre da tutto questo attraversamento che fa delle tragedie della storia non porta mai a nessuna elaborazione. Nella sua visione del mondo, il male non ha senso (non vale nessuna spiegazione politica, sociale, di teodicea, di psicologia sociale). Il male arriva e le persone ne sono in balia. Il buonismo è una sorta di prospettiva leibniziana di vivere nel meno peggiore dei mondi possibile.
Un’altra conclusione è nella sua visione non si distingue l’elemento immaginato da quello reale. Il continuo ricorso a una narrazione ipotetica, il prevalere di una memoria emotiva sulla ricostruzione storica, definiscono una visione infantile, priva di quel principio di realtà, che seppure permette di salvare un bambino dalla violenza del reale quando si manifesta, rischia per un adulto di trasformarsi in una prigione mentale, in un sogno nostalgico in cui appunto non c’è differenza tra i propri desideri e quelli degli altri.
In questo senso, il trauma veltroniano, lui stesso inconsapevolemente ma esplicitamente lo cita nell’ultimo libro sembra essere proprio il non aver mai conosciuto suo padre, Vittorio, giovane dirigente Rai morto che lui era neonato. Quest’impossibilità di confrontarsi con un padre che ci guida e ci giudica e quindi possa mediare sui nostri successi e sui nostri fallimenti, fa sì che per noi il fallimento, la sconfitta sia sinonimo di non-realtà. È un tipo di complesso che Massimo Recalcati ha definito “complesso di Telemaco”: come novelli figli di Ulisse aspettiamo il ritorno di questo padre eccezionale con il quale non possiamo confrontarci mai. Nel frattempo, non sappiamo cosa e bene e cosa è male. La cosa incredibile è come questa proiezione veltroniana sia riuscita a diventare una visione suggestiva oltre che una grande narrazione politica. Perché ne siamo stati in parte stregati anche noi? Riusciremo a affrancarcene?


christian raimo

1 commento:

la mamma di freud ha detto...

http://temi.repubblica.it/micromega-online/le-muse-nel-palazzo-imbarazzate/

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