martedì 30 novembre 2010

wikileaks

wikileaks è una roba da donne delle pulizie

la vita oscena di aldo 9

http://www.la7.it/invasionibarbariche/pvideo-stream?id=i361267

lunedì 29 novembre 2010

Un analfabeta ha una certa grazia che perde con la cultura. Poi la ritrova a un alto grado di cultura, ma la cultura media è corruttrice.
Pier Paolo Pasolini

domenica 28 novembre 2010

sgarbi vs guzzanti a tetris

sabato 27 novembre 2010

I libri si giudicano dalla copertina

venerdì 26 novembre 2010

falso mito: le tizie grasse fossero magre sarebbero belle.

giovedì 25 novembre 2010

In amore gli scritti volano e la parole restano.
Ennio Flaiano

mercoledì 24 novembre 2010

Ricercatore: disoccupato che vive di sussidi dello Stato e passa il tempo facendosi intervistare da Rai3 o scrivendo ai giornali.

martedì 23 novembre 2010

Kaboom (2010) - Gregg Araki - TRAILER

domenica 21 novembre 2010

una delle tante lezioni che ci ha lasciato hitler è di giocarsi sempre il tutto per tutto, così si perde una volta sola

sabato 20 novembre 2010

mi imbarazza l'ingenuità, il che è da ingenui

venerdì 19 novembre 2010

Opificio Ciclope | Showreel

giovedì 18 novembre 2010

http://ildeboscio.wordpress.com/

mercoledì 17 novembre 2010

yes we nichi

improvvisamente tutte le femmine che conosco sono infolardate per nichi vendola. femmine che fino a ieri piangevano sommessamente il loro sfiorire, oggi sprizzano nuovamente gioia e strani propositi e hanno in viso come una birichinaggine, la faccia di chi sta per farti la sorpresa. femmine di ogni genere, dai quindici ai cinquant'anni, dalle proletarie alle borghesi decadute (non conosco femmine ricche), brutte o bruttone che siano. e a tutte se tu chiedi cosa ci sia di così bello nel vendola, tutte... tutte ti guardano a un tratto con occhi rugiadosi, come se la avessi svegliate di botto, e dopo un po' di raspare in quella loro testa così versatile... oh, ma così versatile... ti tirano fuori il motivo più bello: che vendola batterà la sinistra.
gliel'ho sentito dire con queste orecchie: sono soddisfatte perchè vendola, se dio vuole, provocherà l'ennesima guarra interna nella sinistra. e queste femmine, se tu ci parli, si dicono di sinistra, o per meglio dire odiano abberlusconi. io a questo punto ho capito che in fondo l'unico desiderio delle femmine è vedere la disturbata, cioè il litigio, e quanto più è simile a una lite di parrucchiere, tanto più sono contente. perciò il vendola, di cui nessuno è onestamente in grado di riportare il pensiero... questo vendola è tutta la loro gioia.
femmine meridionali, di poche o nulle prospettive, di confermata fede nei valori! amano nichi vendola per un suo fascino puttano e se lo sognano, pure, il nichi, che siccome è recchia incarna in qualche modo il nuovo, e la femmina è questo che vuole, il nuovo, come una nuova borsa, come un nuovo colore dei sette che dio mette in terra, e un nuovo ritorno al passato, purchè sia nuovo.
queste donne che hanno studiato eppure non capiscono nulla di economia, di tecnologia, di scienza, di politica, di energia, delle manifatture, di guerra, di biologia (tranne la loro, che ribolle nonostante l'età), queste femmine unicamente in odio ai maschi innalzano vendola al cielo dei dii, il tocco di vendola, la parola di vendola, ciò che vendola sta facendo per la pace nel mondo, la pacatezza virile di vendola, con tutto che è recchia, il suo taglio così delizioso, la sua pronuncia, deliziosa anche quella, blesa come quella di un capretto, e le sue idee del secolo scorso, il suo tono tra pretesco e infantile, il fatto che non abbia vizi, a parte quello di comandare.
io
me ne voglio andare dall'italia
dove posso andare?
la speranza dell'italia è nichi vendola

scotto

martedì 16 novembre 2010

è l'amore la bestia più calda

una bellissima poesia di Francesca Genti

lunedì 15 novembre 2010

il capitalismo è in una fase ancora imperfetta perché persegue il profitto e attraverso questo obiettivo elimina le asimmetrie informative, e non viceversa.
L'asimmetria la mantiene a chi conviene, e il suo concetto è da estendere alla religione o ai comportamenti sociali.

domenica 14 novembre 2010

ciò che mi affascina della sinistra paladina della diversità è la sua estetica rigidamente omologata

sabato 13 novembre 2010

viviamo un transitorio permanente
Paolo Fasce

giovedì 11 novembre 2010

E pensare che gli orfani non mi sono mai piaciuti
la figlia quattordicenne di Leo Longanesi mentre seppellivano il papà

mercoledì 10 novembre 2010

maldicente come un astigiano

E quando ero abbastanza cresciuto da capire, mi ricordava (il nonno suo) come l’ebreo, oltre che vanitoso come uno spagnolo, ignorante come un croato, cupido come un levantino, ingrato come un maltese, insolente come uno zingaro, sporco come un inglese, untuoso come un calmucco, imperioso come un prussiano e maldicente come un astigiano è adultero per foia irrefrenabile…
Umberto Eco, Il cimitero di Praga, pag.12

martedì 9 novembre 2010

La playstation dimostra che i principi alla base della lobotomia e dell'elettroshock erano corretti, andavano solo adeguatamente dosati.

lunedì 8 novembre 2010

Il premio Goncourt allo scrittore più odioso e letto di Francia - [ Il Foglio.it › La giornata ]

Il premio Goncourt allo scrittore più odioso e letto di Francia - [ Il Foglio.it › La giornata ]

Paris Review - The Art of Fiction No. 206, Michel Houellebecq

Paris Review - The Art of Fiction No. 206, Michel Houellebecq

U.S. is not greatest country ever

When foreign car companies started opening factories in the United States, back in the 1980s, it seemed like an act of obeisance. The plants didn’t make economic sense — Americans had to be paid so much more — but this was a tactful bit of tribute to Empire Central. America wants auto plants? America gets auto plants.

Last week, BMW announced it was opening a plant in South Carolina. No special explanation was required. People were lined up for jobs paying $15 an hour. Equivalent jobs in Germany pay $30 an hour. We’re now a bargain.

The theory that Americans are better than everybody else is endorsed by an overwhelming majority of U.S. voters and approximately 100 percent of all U.S. politicians, although there is less and less evidence to support it. A recent Yahoo poll (and I resist the obvious joke here) found that 75 percent of Americans believe that the United States is “the greatest country in the world.” Does any other electorate demand such constant reassurance about how wonderful it is — and how wise? Having spent a month to a couple of years and many millions of dollars trying to snooker voters, politicians awaiting poll results Tuesday will declare that they put their faith in “the fundamental wisdom of the American people.”

Not me. Democracy requires me to respect the results of the elections. It doesn’t require me to agree with them or to admire the process by which voters made up their minds. In my view, anyone who voted for Barack Obama for president in 2008 and now is supporting some tea party madwoman for senator has a bit of explaining to do. But the general view is that the voters, who may be fools individually, are infallibly wise as a collective — that their “anger,” their urgent desire, yet again, for “change,” is self-validating.

Everybody will be talking in the next few days about the “message” of the elections. They mean, of course, the message from the voters. This is one of the treasured conventions of political journalism. Yesterday, the story was all about artifice and manipulation, the possible effect of the latest attack ad or absurd lie. Today, all that melts away. The election results are deemed to reflect grand historical trends. But my colleague Joe Scarborough got it right in these pages last week when he argued that the 2010 elections, for all their passion and vitriol, are basically irrelevant. Some people are voting Tuesday for calorie-free chocolate cake, and some are voting for fat-free ice cream. Neither option is actually available. Neither party’s candidates seriously addressed the national debt, except with proposals to make it even worse. Scarborough might have added that neither party’s candidates had much to say about the wars in Iraq and Afghanistan (except that they “support our troops,” a flabby formulation
that leaves Americans killing and dying in faraway wars that politicians won’t defend explicitly). Politicians are silent on both these issues for the same reason: There is no solution that American voters will tolerate. Why can’t we have calorie-free chocolate cake? We’re Americans!
The important message of this election is not from the voters but to the voters. Maybe it can be heard above the din. It is: You’re not so special.

The notion that America and Americans are special, among all the peoples of the earth, is sometimes called “American exceptionalism.” Because of our long history of democracy and freedom, or because we have a special mission to spread these values (or at least to remain a shining example of them), or because of our wealth, or because of our military strength, our nuclear arsenal, our wide-open spaces, our pragmatism, our idealism, or just because, the rules don’t apply to us. There are man-made rules like, “You can’t start a war without the permission of the United Nations Security Council.” We’ve gotten away with quite a bit of bending or breaking of that kind of rule. This may have given us the impression that we could ignore the other kind of rules —the ones that are imposed by reality and therefore are self-enforcing. These are rules such as, “You can’t have good ice cream without fat” or “You can’t borrow increasing amounts of money indefinitely and never pay it back, because people will eventually stop
lending it to you.” No country is special enough to escape these rules.

Obama was asked during the 2008 presidential campaign whether he believed in American exceptionalism. He said, “I believe in American exceptionalism just as I suspect the Brits believe in British exceptionalism and the Greeks believe in Greek exceptionalism.” Newt Gingrich’s gloss: “In other words, everything we cherish about America, our president thinks is not so very special, not so very different from any other country. ... No longer, in the left’s view, are we the Americans of the frontier, the sturdy, independent farmers.” But the question isn’t whether Americans can or should cherish our country, its culture and its values. Gingrich is saying that only Americans can do so. His message to the world is, “Hey, buddy, we’ll do the cherishing around here.” And the country he cherishes isn’t 2010 America — it’s some fantasyland populated by frontiersmen and “sturdy, independent farmers.” Scarborough is right about him, too. Why do we pay any attention?

This conceit that we’re the greatest country ever may be self-immolating. If people believe it’s true, they won’t do what’s necessary to make it true. The Brits, who suffer no such delusion (and who, in fact, cherish the national myth of being people who smile through adversity), have just accepted cuts in government spending that no American politician — even a tea bagger — would dream of proposing. Maybe these cuts are a mistake or badly timed, but when the British voted for “change,” they really got it.

Every time I strike this note, which I guess I do a lot, I hear from people calling me elitist or unpatriotic. Here is my answer: If you think a friend is talking nonsense or behaving in a way that damages both of your long-term interests, it is not elitist to say so. To the contrary, it is treating him or her like an adult and an equal. As for patriotism, if you think your country is in danger, how is it unpatriotic to say so?
Michael Kinsley is a columnist for POLITICO. The founder of Slate, Kinsley has also served as editor of The New Republic, editor-in-chief of Harper’s, editorial and opinion editor of the Los Angeles Times and a columnist for The Atlantic.

sabato 6 novembre 2010

notizie da napoli

riceviamo e volentieri pubblichiamo

due settimane fa stavo tornando dal mercato dentro il tram strapieno, e sono rimasto bloccato vicino alla sedia di due testimoni di geova più vicino ai 70 che ai 60, tutte e due pugliesi, che cercavano di convertire due ragazzine cinesi che non parlavano italiano.

TDG:"M' lo sepet' parl'r l'italian'?"
RC: "hihihihihihihi"
TDG "M' nn lo sepet nianch' scrèver?"
RC: "hihihihihi"
TDG: "M'almen la vestr leng' la sepet scrèver?"
RC: "hihihihihi"
TDG: "E' 'mbordand seper scrèver e lègger, s'nnò com' la lègget la Bebbia? C'è la verità, lì dendr"
RC: "hihihihihi"
TDG "M' nianch a scuol andate?"
RC: "hihihihihi"
TDG: "Nianch alla scuola vostra dei cinesi?"
RC: "hihihihihi"
TDG: "perchè poi ci stann' certi confratelli noestri che lo sann parlare, il cinese. Vi possono inzegnare"
RC: "hihihihihi"

le tre fermate di tram + lunghe da un po' di tempo a questa parte.

venerdì 5 novembre 2010

i mali endemici di un certo cinema italiano

I mali endemici di un certo cinema italiano, dialoghi invasi da sociologismi di grana grossa, sottolineature didascaliche a ogni svolta di plot, recitazione caricata, simbolismi sparsi, lo spiraglio di facili consolazioni dietro l’angolo, falso cinismo. Non cerca né trova la poesia delle piccole cose, anzi nella quotidianità dei film a noleggio la sera dopo cena, dei weekend organizzati, dei reiterati giochi di società al pub ogni sabato sera, dei pranzi domenicali intravede a tratti, attraverso la lente della passione, l’horror vacui.
Michele Favara

giovedì 4 novembre 2010

un altro film allegro x alba sopratutto con una storia nuova



la sua pronuncia di qualcosa è già leggenda
bella rece di Paola Casella

Non basta a un regista e sceneggiatore italiano trasferirsi oltremanica per diventare un autore. Christian Angeli, quarantenne con alle spalle il corto Fare bene Mikles, vive e lavora in Inghilterra ma sembra aver assorbito alcuni vizi del cinema italiano firmato anni Settanta: l'ermetismo (e l'implausibilità), la propensione al melodramma (privo di humour), i dialoghi letterari e contorti. Peccato perché alcune idee di regia, come la presentazione della protagonista come un'ombra che scivola lungo una rampa di scale, sono assai azzeccate e suggeriscono un talento cinematografico più alto, qui zavorrato da una sceneggiatura verbosa e incoerente.
Il film vorrebbe essere un vampire movie in cui due genitori ex sessantottini predano sulla figlia postadolescente che si consuma nell'anoressia per sfuggire alla trappola mortale intessuta da mamma e papà (Crippa e Diberti, insolitamente macchiettistici) con l'aiuto di un improbabile psicologo superfigo (Franek). Fosse stata una parodia avrebbe funzionato, ma lo è solo in maniera involontaria.
Paola Casella, Europa, 19 giugno 2010

mercoledì 3 novembre 2010

Case da disabitare

http://issuu.com/nonamarmi/docs/case_da_disabitare_per_issuu

myspace whore

myspace whore

martedì 2 novembre 2010

tahar ben jelloun legge la carta e il territorio

questa recensione di tahar ben jelloun sembra scritta da houellebecq come allegato al libro, per delineare un cretino colossale

Non so se Teresa Cremisi, direttore delle Edizioni Flammarion in Francia, ami la letteratura; quel che è certo è che ha il senso del marketing. Sta curando il lancio dell' ultimo libro di Michel Houellebecq con maestria. La carte et le territoire è il decimo romanzo di questo autore che fa il personaggio misterioso e gestisce la sua carriera con brio, assicurandosi una copertura mediatica che lo proietta quasi sistematicamente in cima alle c l a s s i f i c h e d e l l e vendite. Inoltre non perde occasione per farci sapere di non essere benvoluto e di avere nemici dappertutto, specialmente nell' ambiente letterario parigino. In qualità di membro dell' Académie Goncourt, ho avuto il privilegio di ricevere per corriere espresso una copia del libro. E l' ho letto, matita alla mano. 427 pagine lette e commentate come ai tempi in cui insegnavo e correggevo i compiti degli studenti. Qui non ho corretto nulla, ma ho annotato alcune farneticazioni che mi hanno disturbato e infastidito. La prima è l' idea di inserire se stesso tra i personaggi del proprio romanzo. Michel Houellebecq parla di sé autoproclamandosi un autore importante, tradotto in tutto il mondo, poco amato dalla critica e soprattutto incompreso dal suo tempo. E vuol farsi testimone del suo tempo. Per questo convoca altri personaggi, alcuni inventati, come il pittore Jed Martin, e altri esistenti, che interpretano se stessi nel testo, come lo scrittore Frédéric Beigbeder, Teresa Cremisi e Philippe Sollers (che fa giusto una comparsata per il ristorante La Closerie des Lilas). Arruola come personaggi anche dei giornalisti della televisione francese come Jean-Pierre Pernaut, che fuori dalla Francia è totalmente sconosciuto. La storia narrata nel romanzo poteva essere convenzionale, ma Houellebecq non fa le cose come gli altri. Ha bisogno di parlar bene di se stesso e lo fa mettendo i complimenti in bocca agli altri - d' altronde ci si serve meglio da soli. Jed Martin è un pittore che si dedica alla fotografia. Conduce una vita solitaria, piuttosto modesta, si interessa alle cartine stradali della Michelin, le incorpora nel suo lavoro creativo, ha una storia con Olga, una bella russa che cura la sua carriera artistica. Per il suo catalogo, Franz, il gallerista, gli suggerisce di chiedere qualche pagina al grande scrittore Michel Houellebecq. Accetterà? Perché è uno scrittore di tale livello che non avrà tempo da perdere con un artista sconosciuto. Eppure Houellebecq accetta e Jed va a fargli visita in Irlanda. Il narratore ci fa capire che lo scrittore è l' alter ego dell' artista. Vivono in condizioni simili, Jed ha rapporti complicati con il padre architetto, Houellebecq ne ha avuti di pessimi con la madre. Il libro si legge facilmente, ma non ne ho individuato lo scopo. Di che si tratta? Di comunicarci la sua visione del mondo. Sarà, ma non è poi così interessante. Personalmente m' importa ben poco di quello che pensa Houellebecq degli imperi industriali, dell' architettura moderna o della pittura, tanto più che fa un discorso odioso e delirante su Picasso. Per farvene un' idea, leggete qua (pagina 176): «Ad ogni modo Picasso fa schifo, dipinge un mondo orrendamente deformato perché ha un' anima orrenda e questo è tutto ciò che si può dire di Picasso, non c' è alcun motivo di continuare a incentivare l' esposizione delle sue tele, non ha niente da dare, non c' è nessuna luce in lui, nessuna innovazione nell' organizzazione dei colori o delle forme, insomma non c' è assolutamente niente in Picasso che meriti di essere segnalato, se non una stupidità estrema e uno scarabocchiare priapico che può sedurre qualche sessantenne con un ricco conto in banca». Le Corbusier - il padre di Jed è architetto e si suiciderà senza essere riuscito a realizzare i suoi sogni - viene attaccato nello stesso modo (pagina 220): «Le Corbusier ci sembra uno spirito totalitario e brutale, animato da un intenso gusto per la bruttezza». E ancora, a pagina 223: «Costruiva instancabilmente spazi concentrazionari, divisi in celle identiche, accettabili giusto <...& per un carcere modello». Ma non tutti gli artisti sono animati dalla bruttezza. Houellebecq salva Charles Fourier e Tocqueville. Parla anche bene del suo amico Frédéric Beigbeder, il cui ultimo romanzo Un roman français, che l' anno scorso ha ottenuto il premio Renaudot, è appena stato pubblicato in edizione tascabile con una prefazione di... Michel Houellebecq! Le cose si mettono male quando il "grande scrittore" viene assassinato. Il cadavere, a pezzi, viene ritrovato nella sua casa nel Loiret, in Francia. Le indagini cominciano contemporaneamente al suo funerale nel cimitero di Montparnasse, al quale assiste anche Teresa Cremisi, che descrive così: «Con il suo aspetto da orientale, l' editrice avrebbe potuto essere una di quelle prefiche ancora impiegate recentemente in certi funerali del bacino mediterraneo». Sono presenti anche il suo amico Beigbeder e un centinaio di affezionati lettori. Delle reazioni suscitate in Francia dalla sua morte, Houellebecq scrive: «Tutti si dichiararono "sconvolti" o almeno "profondamente rattristati" e onorano la memoria "di un artista immenso, che sarà sempre presente nei nostri ricordi..."». L' inchiesta permettea Houellebecq, lo scrittore, di farci una lezione di sociologia della polizia. Impariamo qualcosa. I poliziotti sono esseri umani con qualità e debolezze. Stando a Houellebecq, dispongono di macchinette del caffè nonché di whisky "Legavulin", un whisky rarissimo che costa almeno cinquanta euro a bottiglia. Ma questo "reportage" sulla polizia serve all' autore come pretesto per comunicarci il suo disgusto per l' umanità e soprattutto per i bambini. Il libro è disseminato di marchi, sembra la maglietta di un atleta sponsorizzato. Tesse gli elogi delle automobili Audi, del supermercato Casino (di cui fornisce l' indirizzo), delle Mercedes Classe A e Classe C, delle Lexus e così via. Parla male del quotidiano Le Monde, al quale preferisce Art Press. Veniamo gratificati dell' informazione che «in Tailandia le prestazioni dei bordelli sono eccellenti o molto buone»; poco oltre «l' autore delle Particelle elementari» (così si definisce il narratore) confessa che le puttane tailandesi «succhiano senza preservativo, che è una bella cosa...». Che cosa ci offre di nuovo, allora, questo romanzo? Qualche chiacchiera sulla condizione umana, una scrittura affettata che pretende di essere pulita, tecnica, una finzione che convoca personaggi reali e li mescola con altri inventati, un po' di pubblicità per qualche prodotto di consumo e infine l' ultimo messaggio di uno scrittore che crede di essere fuori dal mucchio, al di sopra delle regole, eternamente maledetto e incompreso, e soprattutto uno che non ama la vita né le vie della felicità. Detto questo, ammetto che il capitolo sull' eutanasia del padre in una clinica di Zurigo è notevole. Peccato che lo scrittore Michel Houellebecq abbia fatto assassinare il personaggio Michel Houellebecq da un medico di una perversione del tutto gratuita. Si esce da questa lettura chiedendosi se si ha voglia di raccomandarla o di sconsigliarla. Devo dire che per parte mia non lo avrei letto se non fossi stato obbligato dalla mia appartenenza all' Académie Goncourt, e leggere quante più novità editoriali possiamo per identificare il migliore entro il prossimo 8 novembre fa parte dei nostri compiti.
Tahar Ben Jelloun
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/08/19/il-caso-houellebecq.html

lunedì 1 novembre 2010

Fame di realtà, David Shields

Cos’è il romanzo oggi? Quale genere narrativo sa raccontare meglio la realtà? Quali sono o saranno le forme espressive dominanti del XXI secolo? Dov’è il limite tra citazione e plagio? Chi stabilisce se un autore, appropriandosi di una parte dell’opera altrui, sta costruendo un nuovo orizzonte di senso o sta solo copiando?
Queste sono alcune delle domande che pone e si pone David Shields: autore di opere narrative e saggistiche di successo, tra cui “Black Planet” (finalista al National Book Critics Circle Award), tradotte in dodici lingue, e di racconti e saggi brevi su varie testate (come, ad esempio, «New York Times Magazine», «Harper’s Magazine», «The Village Voice», «McSweeney’s» e «The Believer»).
Shields, per la verità, è andato oltre. Non si è limitato a porre (più o meno implicitamente) domande, ma ha pubblicato un libro (in Italia è stato appena pubblicato dalla Fazi) intitolato “Fame di realtà. Un manifesto”, dove – tra le altre cose – contesta l’utilità del genere romanzo così come è classicamente inteso. Per Shield (trascrivo dalla scheda del libro) “il romanzo del Terzo Millennio deve nascere dalla rifusione di vecchi materiali letterari, mescolati fino a perdere le tracce della fonte originaria e a fondersi in una forma ibrida tra saggistica e narrativa”. D’altra parte il testo che propone in “Fame di realtà” è composto da 618 citazioni suddivise in capitoli e riportate in una sequenza ordinata e sistematizzata secondo certi criteri che lui stesso ha prescelto, ma… senza indicare l’autore e la fonte (alla fine del libro l’editore, per evitare possibili ritorsioni legali riguardanti la violazione del diritto d’autore, ha imposto l’inserimento di una scheda con l’indicazione degli autori delle citazioni utilizzate).
Ecco cosa scrive Shield (qui nella foto) alla fine del volume, come appendice.
“Questo libro contiene centinaia di citazioni delle quali nel corpo del testo non viene menzionata la fonte. Sto cercando di rivendicare una libertà che gli scrittori da Montaigne a Burroughs davano per scontata e che noi abbiamo perso. La vostra incertezza sugli autori delle parole che avete appena letto non è un difetto ma una virtù.
Uno dei temi centrali di “Fame di realtà” è il furto e il plagio e cosa queste parole vogliano dire. Non sarei riuscito ad affrontare l’argomento senza lasciarmi invischiare. Sarebbe come scrivere un libro sulla menzogna e non poter mentire. Oppure scrivere un libro su come abbattere il capitalismo ma sentirsi rispondere che non verrà pubblicato perché potrebbe danneggiare l’industria editoriale.
Tuttavia l’ufficio legale di Random House ha deciso che fosse meglio allegare un elenco completo delle citazioni (…). Se volete ripristinare la forma originaria in cui il libro andava letto, vi basta prendere un paio di forbici o una lametta o un taglierino e staccare le pagine che vanno dalla 248 alla 262 tagliando lungo la linea tratteggiata.
Di chi sono le parole? Di chi è la musica e tutto il resto della nostra cultura? È nostra, di tutti, anche se per ora non tutti lo sanno. Non si può imporre un diritto d’autore alla realtà.”
Questo libro ha scatenato un ricco e articolato dibattito negli States e in altri paesi, anche perché tra i sostenitori del volume – e delle tesi di Shields – figura il Premio Nobel per la Letteratura 2003 J. M. Coetzee, il quale ha dichiarato quanto segue: “Fame di realtà è un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo, un assalto frontale a tutte le convenzioni, particolarmente a quelle che definiscono il romanzo perfetto. David Shields ci conduce in un viaggio intellettuale affascinante ed esilarante”.
Un’opinione di peso, quella di Coetzee… a cui hanno fatto seguito quelle di Jonathan Safran Foer [«Fame di realtà non è soltanto un libro che fa riflettere, ma è anche uno dei più belli che abbia letto da molto tempo a questa parte»] e Jonathan Lethem [«Ho appena finito di leggere Fame di realtà e mi ha illuminato, intossicato, entusiasmato, sopraffatto. È un vetro attraverso cui guardare il mondo (come lo mostrano letteratura, musica, video), e allo stesso tempo uno specchio in cui vederci riflessi, là in mezzo. Un libro urgente, oltraggioso, e anche un'opera che si compone leggendola»].
Mentre Zadie Smith ha affermato: è «intrigante da leggere, anche se disapprovo la maggior parte di quello che dice».
Non mancano i pareri favorevoli di quotidiani di grido come il New York Times («Il libro di Shields stabilisce i canoni dominanti dell’arte degli anni e dei decenni a venire». The New York Times Book Review) e The Guardian («Intelligente, stimolante e aforistico. Un manifesto provocatorio e divertente»).

Il dibattito si sta diffondendo un po’ ovunque tra gli appassionati di letteratura e ha raggiunto anche il nostro paese. Di questo libro ne hanno già parlato Matteo Sacchi (su Il Giornale), Alfonso Berardinelli (su Il Corriere della Sera), Mariarosa Mancuso (su Il Foglio), Stefano Salis – che ha anche firmato la prefazione del libro – e Nicola Lagioia (sulle pagine culturali de Il Sole24Ore).
Di seguito potrete leggere la prefazione di Salis (ringrazio sia Stefano, sia la Fazi per avermi autorizzato a pubblicarla). Nei prossimi giorni metterò a vostra disposizione altri contributi.
I giudizi di Sacchi, Mancuso e Berardinelli non sono molto favorevoli all’operazione.
Alfonso Berardinelli nel suo articolo sul Corriere scrive – con severità – “Se c’è qualcuno che non si perdona, è proprio chi dice qualcosa che abbiamo pensato e scritto per anni, ma lo dice male, noiosamente e nel tono sbagliato. Mi capita questo leggendo il libro di David Shields “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) nel quale si annuncia dagli Stati Uniti, patria, fabbrica e paradiso del bestseller programmato, che in verità il romanzo è un genere fuorviante, abusato, quasi sempre un po’ fasullo; e che invece l’ aforisma, il saggio, le scritture fuori genere, gli zibaldoni di pensieri e i diari sono molto meglio: sono più onesti, più appassionanti, dicono cose più vere di quante ne dice un romanzo normale e «ben fatto». Condivido molto di ciò che Shields dice nel suo libro. Ma non riesco a condividere né l’entusiasmo del prefatore, Stefano Salis, né tantomeno le solenni affermazioni di J. M. Coetzee, secondo il quale Fame di realtà sarebbe «un manifesto per la nuova generazione di scrittori e artisti, una pietra miliare per questo secolo…».
Mi preme, poi, evidenziare questo passaggio del pensiero di Berardinelli (spiegherò il perché): “L’aforisma 538 suona così: «Mi ritrovo a dire, succintamente e prosaicamente, che è molto più importante essere se stessi che chiunque altro». Dalle note in fondo al libro si viene a sapere che una tale stupidaggine l’ha scritta Virginia Woolf nel suo famoso saggio “Una stanza tutta per sé”. Che cosa è avvenuto? La frase, che nel suo contesto era al posto giusto, è stata trasformata da Shields in una comica sciocchezza, che starebbe benissimo e sarebbe una cosa seria nel diario di un adolescente, ma nel manifesto estetico di un cinquantenne colto e ambizioso fa cascare le braccia”.

Massimo MaugeriFame di realtà, David Shields

la prima cosa bella che ho avuto dalla vita è il tumore

Film di Virzì con malati terminali in casa che se la spassano come matti, familiari che si abbrancicano, filmati finto anni '70 con livornesi vestiti malissimo e tutta la città di livorno nel suo complesso con paolino di mtv e micaela ramazzotti spacciata per fica.
Precisione cronometrata con cui arrivano momenti strappalacrime .
Ennesima conferma che l'ultima opera di chiunque è la peggiore.

ti ho lasciato un messaggio segreto in bacheca

il blog dei servizi segreti