domenica 29 dicembre 2013

‎Spero ci sia un inferno per i buoni.
Eugene O'Neill

martedì 17 dicembre 2013

cretini, ricchi & poveri

la differenza tra un cretino povero e un cretino ricco è che il primo è un cretino e il secondo è un ricco

giovedì 12 dicembre 2013

la bellezza é compresione immediata, totale, fragile, illusoria

in un racconto di calvino edmond dantès, il protagonista del conte di montecristo, si trova chiuso nella prigione e ragiona di come uscirne. c'è un altro prigioniero, l'abate faria, ed edmond lo osserva costantemente mentre scava i suoi cuniculi nella fortezza e finisce sempre in un'altra cella. dantès sostiene che mentre faria procede per tentativi ed errori, lui utilizza gli errori di faria per costruire una teoria della fortezza, uno schema astratto che cerca di rendere sempre più perfetto. la tesi di dantès è che immaginare una fortezza perfetta, dalla quale non sia possibile uscire, lo aiuterà ad uscire dalla fortezza reale, perchè dove la reale non coincide con la perfetta, allora lì si annida l'errore della fortezza, che permetterà di vincerla. e se poi la fortezza reale coincidesse con quella ideale, almeno il prigioniero si metterebbe l'anima in pace, perchè sapendo che è perfetta non spererà più di uscire, e questo praticamente equivale ad essere libero. è chiaro il parallelo con i metodi logici (talmente chiaro che il racconto ne soffre, come sempre avviene in calvino, che per mania di essere comprensibile risulta sciapo) ed in particolare con la ricerca di un teorema che dimostra l'impossibilità o l'inesistenza di qualcosa. molte persone volgari non capiscono che lo scienziato (e anche il vero umanista) preferisce scoprire che non può sapere una cosa, piuttosto che restare col dubbio di come saperla. naturalmente con questi metodi si rischia di fare della metafisica, che poi è quello che fa anche calvino. perchè se davvero vogliamo parlare dell'inconoscibile e dell'abisso, bisogna rinunciare alla pretesa di dimostrare alcunchè: e la maniera più facile è l'insensatezza, che è anche la meno interessante, mentre quella più signorile qual è? a mio avviso il vero signore non deve compiacersi né della logica (che è solo un giocattolo) né dell'abisso (che è solo stanchezza) e lasciarsi attraversare dall'intuizione: la comprensione immediata e perfetta di un nesso prima invisibile, raggiunta senza far macchinare il cervello o le mani, senza calcoli nè tentativi: l'intuizione luminosa e apparente che è assieme giuoia e bellezza, è un piacere sconosciutissimo sia ai tecnici che ai teorici, probabilmente è un errore. in questo consiste il fatto estetico: la bellezza é compresione immediata, totale, fragile, illusoria.

martedì 3 dicembre 2013

complesso di edipo

i guadagni dei padri ricadono sui figli

lunedì 2 dicembre 2013

milano fa schifo

Milano è fantastica. L'incanto e il disincanto sono due aspetti della stessa triste realtà. Il provincialismo si manifesta in egual misura in uno qualsiasi dei due stereotipi del cagone medio: adoro la mia città/odio la mia città. Il garantismo non è contemplato in genere: quanto è più accentuato l'aut-aut, tanto una posizione è la derivata dell'altra. In questo senso, Milano offre spunti di estrema delicatezza e poesia. Se il quartiere ce l'hai dentro fin dalla nascita, anche «girando il mondo» si ricercherà sempre e solo il quartiere. L'accattone dell'esistenza, che non trova stimoli dentro di sé, si accanisce contro l'aridità di Milano, senza rendersi conto che è lui, in primis, a essere poco interessante in assoluto. Parimenti, il provinciale ultra-stimolato trova fantasmagorica qualsiasi cazzata sofisticata in apparenza, per darsi un senso e approcciarsi a cose che, nel paese natale, non aveva mai viste. Passare le serate senza argomenti a dire «Milano fa schifo», conservando una perenne aria da habitué, è l'estremo palliativo del fallito imborghesito nell'animo, che ritiene «semplici» le persone affascinate. Senza capire che è la stessa miserabile semplicità, la sua. Credere nella propria sofisticazione, sentirsi in qualche modo versati ad «altro». Questo «altro», nella migliore delle ipotesi, consiste nell'andare a Londra a lavorare in uno studio di grafica o in banca, a Berlino a scassarsi in discoteca, a Barcellona a vivere la movida, a Lisbona a saggiare la saudade. «Vado a stare a Milano», «me ne vado da Milano» suonano allo stesso modo. Una litania esausta, pallida. La classica occasione persa per tacere. Un'autocelebrazione fatta di stupore e complessi. Chi davvero se ne va, lo fa in silenzio. Come il provinciale vede Milano come un centro di cultura, un'occasione per lavorare, un luogo dinamico e creativo, il milanese vede le altre metropoli europee allo stesso identico modo. Lo slancio, la propulsione, è la stessa. Il tizio insoddisfatto che alla domenica va a vedere la partita al bar sport davanti a un bianchino insieme agli amici di sempre, e dentro di sé sbuffa «pezzenti, provinciali... ah ma quando me ne sarò andato a Milano...» è lo stesso milanese che fa le cose per inerzia, trova inutili gli altri e dentro di sé aspira: «pezzenti, provinciali... ah ma quando me ne sarò andato a Londra...». La realtà è come la descrive lo spot del centro moda jolly più: «l'abbigliamento della distinzione». Ogni minima peristalsi sociale è un'affermazione della propria unicità, attraverso l'omologazione. Del resto, è solo dalla normalità che ci si può elevare. Lo straordinario è una branca dell'ordinario, e questo stato di cose è eterno. Il profugo spirituale che scappa o raggiunge Milano si sente in qualche modo straordinario per questa sua supposta conquista d'unicità, d'elevazione dai propri consimili-conterranei. In verità, purtroppo, la stradina ciottolata con il baretto e la bici parcheggiata al palo e la mamma che sbatte le lenzuola dalla finestra, è una trascendenza che riguarda e riguarderà sempre solo la propria autosoggettività, povera in quanto schiava dell'infanzia prolungata «ad perpetuum». Riccardo Mauri, mail@ildeboscio.com