martedì 12 giugno 2012

figli dei baustelle


guida supercompressa al pop indipendente italiano a cura di Enrico Veronese

Tagliare subito la testa al topic è uno sporco lavoro ma lo devo pur fare, un indizio “severo ma giusto” di ciò che aspetta nelle prossime righe. Checché possa apparire cool per simpatia o malcompresa sovraesposizione, la musica indipendente italiana è uno stagno profondissimo verso il basso e piuttosto chiuso verso l’alto, poco comunicato e meno ancora cittadino dell’immaginario collettivo, rispetto ai Paesi anglofoni dove il rock e i suoi derivati hanno una tradizione consolidata oppure hanno goduto -Belgio, Islanda, Svezia- di sostegni pubblici e privati. Eppure, senza cercare manco troppo fra le pieghe, in tale esiguo contesto continua ad annoverarsi la speranza verso l’innovazione e la rigenerazione di un patrimonio che sta a cuore a chiunque canti sotto la doccia, in auto, nelle dediche sentimentali o negli inni social-popolari gridati assieme agli Zen Circus. Nelle ultime settimane, 15mila persone in due giorni hanno scaricato “Con due deca”, compilation di tributo agli 883, inopinata fonte (o ascendenza proibita) per non pochi degli attuali sbarbi sugli specchi, portati alla ribalta generale oltre il confine del proprio subgenere: ripartiamo da qui, per un’esposizione che da subito non vuol essere esaustiva delle forze sul campo. Anche se è palese come il 2007, anno di flesso verso un mezzo Eldorado collettivo allora considerato possibile, sia ormai lontano cinque anni. Luce.
In principio furono i Baustelle, o meglio il loro passaggio dal bagnare i sogni post-adolescenziali di un discreto nugolo di giovani bohemien al commercio di massa, come se ogni prodotto con un prezzo apposto sulla superficie non fosse già in partenza destinato ad essere incompreso -quando non travisato- da un pubblico che il musicista non può più scegliersi. Chi gridò al tradimento (“voi gridavate cose orrende e violentissime”… solo che eravamo noi) preconizzava cosa sarebbe stato nei suoi pensieri, l’overground che fagocita simboli e temi delle autoproduzioni: in altri termini, la naturale evoluzione del recruitment dei talentuosi, della cooptazione degli ottimati, tanto più in perfetto ambiente pop e radiofonico. Di “nuova musica leggera” parla spesso Matteo Zanobini, uno dei più lucidi per visione tra i nuovi discografici, che ha dato alla sua Picicca Dischi contenuti coerenti e forme eclettiche nel solco del genio italico, dal best seller Brunori Sas ai brillanti Carpacho!, passando per i krismatici Le Rose, la sontuosa voce di Dilaila, i Fitness Forever dal cuore di panna, la ragazza cattiva Maria Antonietta che va in paradiso a dispetto dei santi e un Dimartino che si candida, col tempo, a occupare il soglio lasciato vacante dal povero Lucio Dalla. Del resto, alle etichette mainstream manca il ripescaggio del concetto di repertorio, caro alle fortune nazionali, ovvero uno stock di autori di testi di alto livello -sull’esempio di Sergio Bardotti – chiamati a operare in simbiosi con eccelsi produttori artistici, al servizio di voci cresciute sui palchi, comunque lontano dai talent show imperanti.
The Van Houtens
The Van Houtens
Ma anche se i grossi dobloni delle major declinanti vi risiedono, e pagano profumata pubblicità ai media ubicati nel raggio di due km o due aperitivi, distopicamente Milano non è affatto al top per quanto riguarda il movimento in Italia. I suoi locali chiudono in progress, l’ondata musicale scantona in un buco nero dopo l’immanenza del rock italiano anni Novanta, muoversi per spotlight conviene: se Bologna è stata fondativa per la koiné, con locali, etichette e radio a remare in una direzione, oggi pare abbia perso un poco il passo, sospesa tra gli hipster tardivi delle notti “matricolate” al Covo e il genio anarchico di Trovarobato e Spore, a tutto vantaggio di una Romagna felix che si stringe attorno al Bronson d’inverno e all’Hana-Bi (bagni 72, Marina di Ravenna) d’estate, ora che il MEI ha perso di significato col trasloco in Puglia, non fosse sufficiente il ritiro delle etichette, sua ragion prima d’essere un tempo. Ma su tutto e su tutti -canterebbeDente, tra gli elementi più in vista di questa rénaissance, mogol dell’amor cortese su letti precari di case in cui vivere tre mesi ad andar bene- vince la provincia: la Mecca della musica indipendente italiana è senza dubbio Brescia, parlarne in chiave di namedropping sarebbe tortuoso, con una trentina di band di rilievo anche sovranazionale, etichette perspicaci, un giro di locali sempre pieni di pubblico ai concerti, la storica e libera Radio Onda d’Urto a spingere, aiuti reciproci a fondare una consapevolezza di “scena” difficilmente replicabile nel breve termine. Ci sta provando ad esempio Pesaro, vocata a un certo spirito new wave da spiaggia, tra il surf wilsoniano dei Karibean e l’algido triangolo Cure dei Be Forest, attraverso la giocoleria Camillas e una figura catalizzante come il disegnatore Alessandro Baronciani, icona generazionale nonché frontman degli haiku-punkster Altro.
Dove sono finiti tutti? In televisione, giusto qualcuno: il jingle di “Midnight revolution” (…a Toys Orchestra, probabilmente la migliore delle band nostrane col passaporto vistato) impazza con Fabio Volo su Rai Tre e al Primo Maggio dei sindacati, ove l’istrione Lorenzo Kruger dei Nobraino vestito da soldato si rade in diretta davanti a mezzo milione di persone fisiche gratis ma paganti volentieri l’Irpef alla sua “Mangiabandiere” che lascia come ultime volontà le poesie di Vian. E Colapesce sbarca in tarda serata a contraltare Marco Giusti su “Stracult”, interpretando alla sua maniera uplifting oscure trame dei film di serie Subbuteo: il giovane Lorenzo è tra gli esponenti di punta dell’ascendente 42 Records, parto del giornalista e blogger Emiliano Colasanti e del tecnico audio e produttore artistico Giacomo Fiorenza, che da qualche tempo le imbroccano tutte, a partire -per lustro- dalla scommessa vinta su I Cani, one man project presto allargatosi per le esibizioni dal vivo, macchia di leopardo da Roma Nord alle vette di iTunes e al sold out quasi ovunque sulla scorta di brani synthpop che garbano ai propri ascoltatori perché parlano dei propri ascoltatori, potenziali Asperger quando non fondamentalmente bipolari. E cosa poteva scoppiare in Italia, se non la band electropop teatrale e discorsiva che, toh, senza imitare i Cani va a pescare nello stesso stagno che sappiamo angusto? Da Bologna ecco Lo Stato Sociale, ironia feroce e suoni da pochi soldi, attitudine al comizio e postmodernità avanzata nell’artwork: “Sono così indie” non fa prigionieri, eppure al termine dell’esecuzione si resta sempre con un ovo sodo in gola che non va né giù né su. Li produce Garrincha Dischi, che dal capoluogo emiliano dirama una nutrita serie di progetti e compilation, ripescaggi e uscite rapide come conigli: gli ispirati Chewingum, il ponderoso Nel Dubbio, i Walrus brit-friendly e soprattutto l’unicum ManzOni (collettivo post-rock di quattro chitarristi che esaltano i testi sofferti e introspettivi del 59enne Gigi Tenca, non è un refuso) sono i prossimi sulla rampa di lancio. Attraversando il grande fiume, fratelli di rischio sismico si incontrano a Mantova con Foolica Records, impresa folle di tre amici che nel corso di pochi anni ha messo in piedi un roster di tutto riguardo, nel tentativo di imporre anche fuori confine alcune eccellenze trasversali: una band per tutte i The R’s, finiti sull’etichetta americana di National Geographic.
Amor Fou
Amor Fou
Onomastica, suggerirebbero gli Offlaga Disco Pax. I nuovi gruppi si chiamano come un curioso incrocio tra gli anni del beat e quelli del prog: L’Orso, Il Pan del Diavolo, Le Case del Futuro, Il Triangolo, Officina della Camomilla, Casa del Mirto, i quali ultimi raccolgono il testimone della blog-xploitaton fuori porta -che appartenne a Banjo Or Freakout- ospitando nella baita trentina di Mashhh! Records oltre che sui supporti virtuali i nomi caldi del chillin’ dream pop d’oltreoceano, facendo marameo alla provincialità da birreria dei conterranei televisivi Bastard Sons of Dioniso. La ditta produce solo vinili, cassette e mp3, da vendersi ai concerti e per corrispondenza, in un rapporto 1:1 recuperato all’obolo che altrimenti sarebbe da versare a distributori e negozi, sempre più vuoti e polverosi; scollinando senza fretta le Alpi, tenendo in disparte le conseguenze dell’amore tormentato, difficile, territoriale dei bravissimi Non Voglio Che Clara (bellunesi) e Valentina Dorme (trevigiani), la pedemontana si adegua ai tempi che cambiano puntando tutto sulle canzoni singole. Così i Diva, tra Vicenza e Padova, trascorrono le prime ore della notte davanti “Io Tv” su Retequattro per estrapolare pattini a rotelle d’epoca, cotonature micidiali e teatri Petruzzelli in Azzurro, filologi della via nazionalpopolare al brit-floor: loro autore è Davide Golin, che si sta ricavando un suo spazio nella narrativa di formazione col romanzo “Pablito mon amour” sul significato di vivere nei Berici sotto il regno di Paolo Rossi, a pochi anni d’età. E addirittura alle soglie della laguna, i No Seduction perseverano nel rilasciare i brani parcellizzati alla mercè della Rete, remixabili e senza un disegno d’album ad ora compiuto né un committente, se non il gusto di mettere assieme LCD Soundsystem, Hercules and Love Affair, Beastie Boys e Gorillaz in un power trio di lotta e di governo.
La strada buona può essere anche quella della pubblicità, come parrebbe illuminare “It’s a beautiful day” dei verbanesi Van Houtens, prima lanciata dallo spot McDonald’s, e solo anni dopo inserita nel primo, ottimo album del quadrato Alan Rossi macinasingoli; magari Michele Bitossi -pure nelle librerie con “Piccoli esorcismi tra amici”, raccolta di racconti brevi- storcerà il naso, lui che coi moniker Numero6, Mezzala, Nome, spesso e volentieri ha cantato le contraddizioni del proprio ruolo di artista dotato ma senza grossi budget a disposizione (“Rocker carbonaro” e “Il personaggio” sono pungenti e caustiche quanto veritiere ed amare). Ma se al 2012 viene chiesto di offrire un solo nome, un solo crack, è agliAmor Fou che bisogna rivolgersi: “Cento giorni da oggi” riprende il discorso dei “Moralisti” arricchendolo di un viaggio in Africa e di un bagno sentito quanto opportuno nei suoni e nei contesti che altrove fanno la coesione del pop di qualità, risultando a un tempo fotografici, induttivi nello storytelling, in linea temporale perfetta con le esigenze dei propri ascoltatori e di chi dalla musica cerca di trarre prospetti di lettura della realtà antropologica circostante, vintage attuale o futuribile che sia. In misura minore, ma accostandosi al mood e con buone frecce al proprio arco, un aperitivo all’ingresso in tale atmosfera può essere delibato al chiosco dei gardesani Intercity, abili nell’assemblare un discorso che prende le mosse da riferimenti colti e dalla poetica del Novecento per immagini, entro un costrutto digitale per analogia. Nel mentre, sotto scala, già serpeggia un’ultima tendenza destinata a contaminare le abitudini etiche ed estetiche dei metropolitani curiosi: si chiama “sea punk”, e dietro la simbologia ittica e i colori vivaci porta avanti un’elettronica fossile disturbata da screzi shoegaze, prodromi alla witch house eclissatasi giovane, a incontrare il gusto delle ragazze dai capelli verdi che passano il tempo sulla piattaforma Tumblr. Tra i suoi interpreti nella Penisola, il duo parmigiano The Gordon Setter, ventidue anni lui (autore e tastierista) e diciotto lei, bassista: come Moroder e la compianta Donna Summer, cantano in “Tropical nights”, ed è davanti alla generazione nata a metà anni Novanta che si spalancano le porte dell’affermazione nei canali ruggenti, senza che i fratelli maggiori abbiano avuto analoghe chance, limitandosi a guardare con benevolenza -e un pizzico d’invidia- questi testimoni del qui e ora.

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