lunedì 14 maggio 2012

Quello che (non) ho

Su #la7 #fazio e #saviano fanno il saggio di fine corso del liceo classico

C'è anche #elisa che suona il pezzo che ha imparato quest'anno e #saviano vestito da compagno povero

la comicità della #littizzetto fa sembrare moderno plauto: scherzare difetti fisici, doppi sensi sessuali, citare pubblicità di 2 anni prima


Appartamento67 ‏ @Appartamento67 No no no no, la Littizzetto parla della Donna e sa dire solo patata e tette? Ma dai, basta! Basta parlare di tette! #quellochenonho

Davide Licordari ‏ @davidelico La Littizzetto è così scontata che è in corsa per essere la futura direttrice della Lidl Italia.


comunque essendo il saggio di fine corso, la trasmissione di #fazio è copiata da questa canzone di #pacifico,http://t.co/NlF0ei9A




RITO DA MAESTRO MANZI NEL CLIMA DI REDENZIONE
Aldo Grasso per il Corriere della Sera


Il destino delle parole è che invecchiano e si usurano con gli uomini che le usano. Un po' martire, un po' rockstar Roberto Saviano vive di parole, ha costruito il suo successo con le parole e, nonostante la giovane età, viene già osannato come un venerato maestro.


Così, con l'aiuto di Fabio Fazio e di illustri «parolieri» come Francesco Piccolo e Michele Serra (seduti in prima fila), ha trovato ospitalità su La7 per ripensare le parole che usiamo (idea non nuovissima). Se un tempo le Officine Grandi riparazioni di Torino servivano a riparare i treni, adesso, come location, riparano parole.


Una sfilata di ospiti illustri o meno prende una parola e la spolvera. Annotava nei suoi diari Lev Tolstoj: «Se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata». Questo è il destino delle parole: a furia di ripeterle, di sentirle nella quotidianità diventano gusci vuoti. Solo i veri scrittori sanno restituire loro il senso della vita, sanno restituircele come «visione» non come «riconoscimento». Fazio e Saviano vogliono educarci, redimerci, farci sentire migliori. Senza gioia, con pedanteria.


Le loro trasmissioni sono le sole eredi del maestro Manzi, le sole dove la noia viene scambiata per insegnamento, la demagogia per redenzione, la retorica per vaticinio. E, ovviamente, hanno successo perché la tv del dolore conosce tante forme, anche quella di predicare sui suicidi o sui bambini di Beslan. Il clima è sempre quello del rito, della celebrazione: una sorta di consacrazione laica della parola, una necessaria penitenza perché lo sproloquio si offra a noi come eloquio. Sotto le parole, niente. Solo un po' di omelia televisiva, dove quello che non ho si confonde volentieri con quello che non so.


La debolezza di questo reading è che tutti ti fanno venire il senso di colpa, persino Pupi Avati con i suoi ricordi felliniani al borotalco, persino il duo Travaglio-Lerner: se non sei impegnato, sei non vuoi cambiare il mondo con noi, se non usi le parole come arma di difesa civile, insomma sei poco propenso alla bacchettoneria, che tu sia dannato in eterno.
Fra i tanti luoghi comuni, ci sono anche le parole che il ceto medio riflessivo non dovrebbe mai pronunciare perché fanno cafone: sbaglio o la parola marketta non c'era?


LAST NIGHT I DREAMT OF LOSITO
di Guia Soncini
Ieri sera, mentre la Littizzetto riciclava stancamente repertorio, Favino metteva su l’aria da «sono un attore vibrante e molto impegnato», Fazio augurava alla prossima erede Favino un mondo senza pilates e televoto, senza personal shopper e senza girocollo, così non nata e già così piena di anatemi e di camicie alla coreana. Ieri sera, mentre i fratelli grandi di quelli che occupano i grattacieli si mettevano il vestito della festa e occupavano la prima serata, e mentre gli zii buoni sgomberavano i nipoti ribelli ma sempre tutto con un buffetto e tanta comprensione. Ieri sera, mentre vedevo il futuro, e il futuro non era mica la gauche-caviar, era la gauche-CondéNast. Ieri sera, mentre chiedevo su Twitter che differenza ci fosse tra la tv del dolore di Maria De Filippi e quella di Fabio Fazio che intervista la mamma di Beslan, e ricevevo tonnellate di risposte iniquamente divise tra «vergognati anche solo di averlo detto» e «ora ti spiego che Beslan è roba di guerra e non di televoto», ma quasi nessuna formulata rendendosi conto che, se va in televisione, è televisione. Ieri sera, mentre andava in onda la replica di Vieni via con me e io esattamente come l’anno scorso pensavo «Hanno evidentemente ragione loro, e ora scusate, questo rumore che avete sentito sono le mie palle che crollano a terra.» Ieri sera, mentre la gente che vuole la tv di qualità si sentiva rasserenata quasi quanto lo è quando legge un buon libro, sorseggiando una tisana, mentre i bambini giocano con giocattoli di legno. Ieri sera, mentre la società civile a casa annuiva vigorosa e quella in studio applaudiva convinta a ogni lode al Presidente della Repubblica, a ogni nostalgia delle librerie di quartiere, a ogni signoramiismo sulle ricevute nei ristoranti, a ogni grillismo in ritardo sul bere l’acqua di sorgenti lontane, a ogni non sequitur di senso se non di sintassi. Ieri sera, mentre il ceto medio riflessivo si allargava come accade in caso di evento, quel tanto che basta a includere, oltre alle professoresse democratiche, le sciampiste con velleità culturali che ritengono più presentabile farsi scaldare da Saviano che da un calciatore, le zelanti tardive contenutiste con uno scaffale Ikea per i totem culturali da spendersi in società, le quali correvano a controllare dove fosse l’Ossezia per poi – con l’impeto di chi se ne occupa da sempre e aspettava da anni al varco del telecomando ma nessuna D’Urso mai, per tacer di quanto trascuri quell’area Giletti – per poi dirti che chi critica un programma che parla di Beslan deve vergognarsi, sìssìssì


La stilettata quotidiana
Maura Viperetta

si polemizza sul mezzo bene e si tace sul molto male, tipico dell'intelletuale inutile e snob

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