giovedì 3 marzo 2011

il netmage secondo bucknasty remixato meglio da me

Al Netmage ci sono i milanesi. Tanti, tantissimi. Ci sono così tanti milanesi al Netmage che sembra di essere in Puglia. E dire che quasi stavo per non venire al Netmage, quest’anno. Per convincermi è bastato iniziare una campagna di violenza verbale e psicologica 3, no, forse 4 settimane prima. Tipo assicurarmi, quasi giornalmente, che mi sarei perso un evento. Performance incredibili. Gente fondamentale. Personaggi importanti.

Una sera, un tizio emotivamente stempiato, uno di quelli che riesce a comunicare col resto del mondo solo attraverso un complesso linguaggio formato da video di pubblicità scandinave “geniali” su YouTube e link a Il Post, mi ha ripreso sull’argomento.

“Ma perché rompi così tanto il cazzo, al Netmage ci stanno i giovani con la musica nei pugni!”

Non si è espresso esattamente così, ma è come riassumo tutti i concetti formulati dai lettori del più costoso strumento1 per auto-googlarsi mai creato dall’uomo.

“Oh, ma lo sai che al Netmage suona _______?”
— No, chi cazz’è?

Dopo un po’ comprendi la futilità della tua domanda, e quindi delle risposte che ne seguono. Inevitabilmente, qualcuno, è costretto a dire ad alta voce “Berlino”. Tipo sta in uno squat a B******. Non hai capito, ha una label a B******. Berlino. Berlino. Berlino.

Comprendi inoltre come il concetto di suonare sia ormai obsoleto. Probabilmente fa troppo estate 2009. O qualcosa del genere. La musica non è fatta per essere ascoltata, è un pretesto per fare un check-in culturale e validare la tua percezione della realtà. Il Netmage è la transposizione bolognese di questo concetto perfezionato dal milanesismo radicale. Un concetto che supera facilmente tutte le esegesi post-moderne più amichevoli. Non è una coincidenza, quindi, che i frequentatori più accaniti del Netmage — e di tutte le altre manifestazioni sue sorelle — siano, infine, quelli che non-sopravvivono scrivendo di musica. Gli mp3 blogger, in ansia da prestazione per gli accrediti rimbalzati ancora una volta; i wannabe-giornalisti musicali, in cerca di mani da stringere, in scimmia di contatti. I rispettabilissimi giornalisti da 30€ a botta, arroccati dal presenziare su ogni social network accessibile dall’Italia, amiciXlapelle di tutti i gruppi con all’attivo meno hits dei loro blog. Non sanno suonare, non sanno scrivere, sanno aggiornarti. Sanno partecipare. Anzi, fanno “networking”. L’evento bolognese è il bar mitzvah atteso tutto l’anno, l’occasione di farsi amputare il cazzo da gente che non ha mai saputo come usarlo. Il passo necessario per essere considerati adulti e produttivi.

Perché alla musica esposta — il termine corretto da usare, invece di suonata — è stata infine rimossa quell’arrogante pretesa armonica, strumentale e di canto che taluni esigono durante un normale concerto. L’inutile grasso in eccesso è stato rieducato in rumori sintetici prodotti tramite “performance art” che solitamente trovano spazio fra coloro che tentano di fermare la prevaricazione patriarcale, tizie appartenenti alla sinistra lesbica antagonista rivoluzinaria Amish che si alternano per 1 ora e 24 minuti ad urlare piegate in avanti, stile preghiera blasfema a un monolite nero costruito con gli schiaffi alle casalinghe, o segando delle grosse lastre di polistirolo e legno.

La cosa importante, ciò che lega tutte le esibizioni al Netmage, è dilatare il più possibile il proprio suono e performance. Prendere pause sempre più assurde fra loro; tirare fino al grottesco, fino a lacerare i limiti del ridicolo, come i leggings su tua madre.
È lo sforzo necessario a cambiare un sistema in piedi da quando esiste il concetto stesso di musica “moderna”. Da strumento per veicolare il proprio vissuto, a uno in cui creare frizione verso il proprio brand personale online. Questo non si ferma ovviamente solo alla musica “sperimentale”; anzi, vale ancor di più se pensiamo al consenso che si è generato intorno a personaggi come Bugo, Dente, Dargen D’Amico, Le Luci Della Centrale Elettrica o qualunque altro stucchevole gruppo ammiccante del cazzo contenitore di ansie sociali gentrificate che devi ascoltare dal vivo tramite una tessera ARCI. A nessuno frega un cazzo di loro nella vita reale. Sono apprezzati e celebrati e seguiti da gente la cui massima preccupazione — quando si alzano la mattina per andare al lavoro nella camera degli ospiti — è porsi sinceramente quesiti come “quale tshirt esprime al meglio il mio punto di vista sulla sofferenza umana?”, oppure “quale book fotografico in b\n di madri calabresi coi baffi povere sta meglio sul tavolino della chaise longue?”. Gente che ha adulterato la musica rendendola sgraziata, deforme e inutilmente complessa. Un Linux in grado di essere utilizzato solo da loro.

Venti minuti prima di andare, alla fine, per convincermi effettivamente a partire, è bastato giurarmi che non avrei pagato la benzina, l’autostrada, l’albergo, l’ingresso e che mi sarebbero stati offerti tutti i drink che avrei desiderato. Allora ci ho pensato su, e finalmente ho detto “no”. Ma non era veramente un “no” convinto. Tipo quelli che ti dicono “stupro?” e poi precisano “ma era stupro, o stupro-stupro?” Niente paura, a ‘sto giro era solo stupro.

Perchè — forse qualcuno lo ignora — è pericoloso andare al Netmage. Appena sfuggi da Milano uscendo dalla porta sul retro di Melegnano devi superare posti come Lodi, Pavia, Parma. Circolano un sacco di macchine di proprietà degli abitanti di queste città e, appena vedi passare una pattuglia della polizia, devi abbassare il volume della radio, per nascondere tutte le prove di divertimento.

Ma in realtà non temevo neanche gli Ausiliari della Noia, l’umanità, a quel punto, mi aveva messo di buon umore. Un paio di giorni prima di partire, per strada, un tizio di Save the Children ha cercato di darmi in comodato l’esistenza di qualche bambino del Negristan. La zona non era affatto pericolosa ma, per sicurezza personale, l’uomo indossava un giubbotto anti-intellettuale. Nulla lo scalfiva. Parlava, e ogni tentativo di fuggire dalle sue proposte sparandogli riferimenti cinematografici, musicali o letterari veniva rimbalzato dallo sguardo spento dell’anestetizzato da poco. Era completamente immune a ogni tipo di sarcasmo e ironia proveniente dalla mia parte. Non avevo mai visto qualcuno così dal vivo, pensavo che queste persone esistessero solo nei film demenziali e in Piemonte. Era sinceramente puro. Il tipo di persona che si addormenta immaginando un bambino con le ossa grosse che offre un fiore nel traffico di Milano a una donna-poliziotto in difficoltà; invece di violentare il collage di tutte le ragazze che ha conosciuto nella propria vita, come fanno le persone normali.

Probabilmente paga il canone RAI.

Come lavoro fa l’inviato (precario non pagato!) di Qui Studio a Voi Stadio, una trasmissione cult di calcio che ogni domenica contribuisce a diminuire le aspettative di vita di diversi anziani di Milano.
Insiste con me finché non scopre la mia mancanza di documenti, necessari per l’offerta. Privo di personalità, di presa di coscienza della sua esistenza, dell’umanità intorno a lui; ho discusso per 15 minuti con la carriera di Giovanni Lindo Ferretti. Ignora, inoltre, quante persone lo invidino. Conosco gente che darebbe tutto per essere come lui. Si lamentano che la loro sensibilità impedisce loro di condurre una vita senza sofferenze. Vorrebbero essere stupidi, ti dicono. Sono troppo intelligenti e brillanti—quindi soffrono. Quando sono al buio ti confidano che invidiano gli operai in tuta nei centri commerciali, i puttanoni rosa in fila alle discoteche che irridono su Twitter. Se ogni giorno devi prendere calci con la punta di ferro nelle gambe, lui ha avuto il privilegio di nascere tetraplegico.

No, l’unico vero problema era la notte. Non mi sento sicuro durante la notte bolognese. Bologna ti vuole fottere. Devia le strade, sostituisce passaggi, nega accessi. Indossa un corpetto stradale che costringe le persone a osservare solo i suoi punti di forza, nascondendo disperatamente il suo corpo bulboso. Le rare volte in cui esce la sera riesce a catturare l’attenzione di estranei solo indossando vestiti vintage costosi, come il Palazzo Re Enzo, in Piazza Nettuno. Un cancello di ferro, delle scale per spostare la gente nella versione eteronormativa delle darkroom, un grosso terrazzo in cui evitare di appoggiarsi sui culi piatti delle stagiste. Dentro, uno stanzone decadente e borghese, come tutti i film di Sofia Coppola. Pavimenti di marmo, colonne, lampadari barocchi. Sofia Coppola.

Le persone sono sempre in fila. C’è la fila di 20\30 minuti per i bicchieri distillati, quella per il merchandising e poi la fila per parlare con le lavinie vestite come la sigla dei Robinson.

Non è un buon momento per loro.

Le lavinie, al Netmage, sono ancora più annoiate del solito; specialmente quelle dietro ai banconi. Vendono spillette con le facce di filosofi tedeschi che ricordano vagamente avendoli studiati sulle pagine di Facebook, vendono gioielli etnici di Padova, vendono album indie pubblicati su supporti eccentrici. L’unico modo per riprodurli è vivere ancora a casa di tua madre. Sui loro banconi propongono anche tshirt e fanzine. Sono di gran lunga il materiale più popolare.Tutte le fanzine in vendita sembrano voler rispondere a un quesito esistenziale che l’uomo si è sempre posto: “E ora che mi paga l’affitto a Milano, che cazzo dico che faccio a mio padre?” A quanto pare le risposte più in voga ultimamente sono “tshirt coi lupi\leoni\tigri” e le “fanzine”. La gente è contenta di stare in fila, di doversi stringere, di passarsi vicino toccandosi.Mentre bevono si controllano. Si girano, per capire se qualcuno li sta vedendo. Poi qualcuno li riconosce. “Dovresti venire dopo,” dicono dopo essersi avvicinati. “Fanno una roba interessante qui vicino. Ci sono tutti.”

Poi, giù in fondo, c’è la musica.

qui l'originale ( dopo un po' mi sono stufato di leggere, quindi non l'ho + remixato, però dai il pezzo c'è)

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