venerdì 29 ottobre 2010

La narrativa italiana e gli omogeneizzati per adulti senza casa

Non passa anno che non esca un romanzo di successo con la voce narrante di un bambino, e non poteva mancare all’appello Niccolò Ammaniti, a raccontare «quel paesaggio dell’adolescenza di cui è impareggiabile ritrattista». Non passa anno che io, en passant, molto passant per la verità, non scriva la stessa recensione tanto intercambiabile quanto questi librini di letteratura d’infanzia per adulti. Eppure stavolta vorrei astenermene, o meglio, capitandomi tra i piedi una pila di Io e te, del quale sono invase le librerie, ennesima storiella facile facile di un ragazzino rinchiuso in una cantina con una sorella che lo svezzerà al mondo reale (con l’alibi del racconto di formazione), ho avuto una illuminazione particolare in più sulla narrativa italiana di successo o di insuccesso in generale. Insomma, non c’entra solo il trucco di sfornare narrazioni minimali da prima elementare e prima alfabetizzazione per nascondersi dietro al paravento paraculo dell’infanzia e davanti al consapevole espediente che una stronzatina scritta da un adulto per adulti resta una stronzatina mentre una stronzatina scritta da un bambino sembra una commovente verità. Perché alla fine, nella furberia, i più innocui mi sembrano proprio loro, i bambini che non hanno paura di Ammaniti, i bambini di cui non si sa nulla della Vinci, il bambino che sognava la fine del mondo di Scurati, il bambino e il papà di Veltroni, il bambino evangelico di Baricco, i bambini di Nove, i bambini di Scarpa, e quest’ultimo bambino di Ammaniti stampato su carta ecosostenibile Cyclus Offset (per paradosso nella collana Stile Libero Big), e ancora di più i bambini veri fuori dai libri, che sono molto più intelligenti e svegli di tutti i suddetti bambini narrati. Detta altrimenti, basterebbe fare un piccolo esperimento scientifico, e leggere una pagina dell’ultimo bambino di Ammaniti e confrontarla non solo con gli altri libri di bambinanti, ma con la maggior parte dei romanzi italiani pubblicati, e scoprire che la lingua è la stessa, le strutture anche, le Weltanschauung stringi stringi anche, di qualsiasi cosa parlino. È difficile trovare scritture non dico da studiare, ma da citare, sulle quali pensare pensieri profondi, difficile non trovare scritture che non sembrino traduzioni di traduzioni dall’inglese di testi sempre elementarissimi, da elementari o su di lì. Se il fratello d’Italia Arbasino non leggeva granché i contemporanei perché in una casa prima dei soprammobili ci vogliono i mobili, qui siamo ai giocattoli e non serve più neppure la casa. Così nell’ultimo Ammaniti il massimo della riflessione è «Un gabbiano era appollaiato sullo scheletro di un albero ricoperto di buste di plastica che spuntava dall’acqua color fango. Se fosse venuto Dio e mi avesse chiesto se volevo essere quel gabbiano, avrei risposto di sì», e comunque, attenzione, questi passaggi non sono da disprezzare, sarebbero perfetti per una canzone di Povia o Jovanotti o Celentano, basterebbe scandirli diversamente («Un gabbiano era appollaiato/ sullo scheletro di un albero/ ricoperto di buste di plastica...»), benché già Jonathan Livingston se ne sarebbe volato via prima di appollaiarsi. Insomma, se leggiamo i punti di non ritorno dei cosiddetti classici, da Flaubert a Kafka, da Balzac a Proust, da Sterne a Faulkner al Fitzgerald citato in epigrafe nell’ultimo racconto di formazione di Ammaniti, tirando le somme non sembrano scritti da bambini anche gli altri romanzi per adulti? Quale reale differenza di spessore tra scritture ci sarà mai tra la Avallone e la Murgia e Giordano e il nuovo Piperno (che però ha dalla sua l’alibi dell’ebraismo, ossia scrive «con un’acribia stilistica da certificatore della purezza kasher», secondo la certificazione del rabbino D’Orrico) e il Lui e lei di Andrea De Carlo e i noi di Veltroni e perfino con la camorra raccontata in modo così semplificato da Saviano (ve lo immaginate che gmommero inestricabile sarebbe saltato fuori se Gomorra lo avesse scritto Carlo Emilio Gadda?), fino alla poetica del mondo storto di Corona, un mondo che finirà perché non coltiva più le patate? Chi non è d’accordo scagli una pagina di letteratura, o se non altro la prima patata, o almeno l’ultimo bambino superstite.
Massimiliano Parente

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