The
Social Network si apre con una scena destinata a diventare cult. Il
diciannovenne studente di Harvard Mark Zuckerberg, sandali e calzini bianchi,
felpa antracite Gap, viene piantato dalla sua ragazza, Erica, al termine di una
conversazione nella quale il futuro fondatore di Facebook si produce in una
mitragliata di osservazioni vetrioliche che rivelano la sua condizione di
patologica alienazione. In questo contesto, Gap non è solo un brand , ma
un’espressione del profondo “divario” - anzi, abisso - tra Zeta e gli esseri
umani in generale. Il fatto che un individuo egocentrico, megalomane, incapace
di provare la minima empatia per i propri simili abbia creato un sito che,
almeno sullo schermo, ha la funzione di mettere in contatto le persone è solo
uno degli innumerevoli paradossi della storia (micro) e della Storia (macro). A
un primo livello, The Social Network racconta la vicenda del più giovane
multimilionario di tutti i tempi e del suo impero virtuale fondato su
tradimenti, manipolazioni e inganni reali, perlomeno nella versione narrata da
David Fincher/Aaron Sorkin e, prima ancora, da Ben Mezrich, autore
dell’incandescente The Accidental Billionaires. The Founding of Facebook: A Tale
of Sex, Money, Genius, and Betrayal (2009), che ha ispirato il progetto. Si
dice che dietro a ogni grande uomo vi sia una grande donna. È una delle
innumerevoli stronzate che informano il (non)senso comune. The Social Network
suggerisce piuttosto come a spingere gli uomini a realizzare imprese titaniche
sia l’impossibilità stessa di stabilire relazioni sociali significative, specie
con l’altro sesso (che è poi la premessa di Fight Club). Rigettato da Erica,
ostracizzato ad Harvard dopo una bravata online (Facemash) che rivela ancora
una volta la sua profonda misoginia, il “Punk/Milionario/Genio” - per citare i
poster che tappezzano le metropolitane americane - si appropria di un’idea
concepita da una trifecta di WASP maschi e sviluppa in poche settimane un sito
che promuove tre valori fondamentali: popolarità a ogni costo, vanità di vanità
e culto della personalità. Così facendo il paria diventa idolo, temuto e
venerato in eguali dosi da cortigiani e groupies, Messia di una generazione
ossessionata dal protagonismo senza limite e da forme terminali di attention
deficit disorder. Poco più tardi incontriamo Sean Parker, ideale controparte e
alter ego dello “$tronzo”, per usare l’elegante definizione di Enea. I due sono
similmente egocentrici e paranoici, mitomani e calcolatori, ma laddove il
fondatore di Napster è una rockstar, un pick-up artist che usa come battuta
d’apertura «sono il CEO... Puttana!», il creep e weirdo Zeta sfiora autismo e
Asperger, ossessione compulsiva e nerdume. Del resto, il messaggio del film era
stato rivelato - anzi, spolierato - dalla soundtrack del trailer, una versione
a cappella di Creep dei Radiohead (1992):
“I
don’t care if it hurts,
I wanna
have control
I want
a perfect body
I want
a perfect soul
I want
you to notice
when
I’m not around
You’re
so fuckin’ special
I wish
I was special”
Che poi
esprime l’essenza di Facebook. Come Fight Club, The Social Network si interroga
sul significato della mascolinità nella società contemporanea. Il primo
descriveva una rete sociale definita dai combattimenti fisici; qui la violenza
è sublimata attraverso la popolarità virtuale, ma le dinamiche sono identiche,
O quasi: la prima regola di questo club è informare il numero più alto
possibile di “amici”, perché il valore di una rete dipende dalle dimensioni
della stessa. I social networks sono virus letali. Il capitale sociale, per
dirla con Bourdieu, è la chiave per conquistare quello economico. E il capitale
culturale? È del tutto inutile. I certificati sono carta igienica. Zeta, come
Gates prima di lui, droppa il college, consapevole che prima o poi qualcuno gli
regalerà una laurea sui generis, pardon, honoris causa.
L’unica
funzione delle università è facilitare l’acquisizione del riconoscimento
sociale (vedi la funzione delle cosiddette “confraternite”, che rappresentano
il tessuto stesso della società americana e preparano gli individui alla vita
adulta). Se nell’incipit Zeta andava in bianco, Fincher introduce Sean dopo una
scopata con una studentessa di Stanford, come apprendiamo dalle mutandine color
cremisi della bionda. Tanto Zeta quanto Esse anelano (e ottengono) una
legittimazione sociale ed economica mediante la manipolazione delle
informazioni e delle proprietà intellettuali altrui, impresa facilitata dal
fatto che milioni di persone non aspettano altro che raccontare tutto di sé al
primo guidatore che passa per l’«autostrada dell’informazione» (Al Gore) per
godere di quindici megabit di popolarità. L’apparenza è tutto, come insegnano i
“creativi”, e la felicità non è che un manifesto ai bordi della strada che
strilla “va tutto bene, non preoccuparti, andrà tutto bene” (Don Draper, Mad
Men). Su Facebook esistono solo leader e seguaci. La complessità del mondo è
ridotta alle due macrocategorie di mipiace/nonmipiace. L’etica, come Erica, è stata
rimpiazzata dagli algoritmi. L’intimità è un database e gli affetti si
cancellano in tempo reale con un refresh. Zeta e i suoi adepti parlano un solo
linguaggio, binario e dicotomico, che ha finito per dominare ogni tipo di
performance su quel palcoscenico immateriale che ha avuto il grande merito di
“democratizzare l’accesso alla Rete” e “mettermi in contatto con i compagni
delle medie con cui avevo perso ogni contatto”. Per capire Facebook occorre
rivedere il geniale documentario di Ondi Timoner, We Live in Public (2009),
incentrato sulle imprese del geek e imprenditore Josh Harris, un Zuckerberg
ante litteram ma senza la sua freddezza e autodeterminazione. Harris ha colto
prima di altri (all’inizio degli anni Novanta) che l’ossessione per il controllo
totale, la trasparenza orwelliana, la quantificazione/commercializzazione dei
rapporti umani sarebbero diventate le caratteristiche fondamentali del XXI
secolo. Zeta è riuscito a monetizzare il sogno, o meglio, l’incubo di Harris,
costruendo un’infrastruttura solo apparentemente orizzontale, che invece
esprime la medesima logica di potere delle corti feudali. The Social Network
racconta quel mondo - il nostro - in modo obliquo e indiretto, preferendo
concentrarsi sulla sua mitopoiesi (2003-2005). E lo fa in modo sublime. L’opera
di Fincher possiede lo spessore narrativo e il pathos di Quarto potere. E come
in Rashomon molteplici narrazioni presentate sotto forma di flashback
articolano la complessità di una vicenda che sembrerebbe semplice, mettendo in dubbio
la possibilità stessa di ricostruire episodi tanto banali quanto cruciali.
Quelli di Sorkin non sono dialoghi, ma sessioni di chat: i monosillabi di Zeta,
proferiti alla velocità della luce, alimentati da Red Bull annacquate di Stoli,
protetti da un paio di cuffie. Se è vero che una società si comprende grazie a
quello specchio riflettente e deformante che è il cinema, è facile prevedere
che The Social Network diventerà la narrazione par excellence della prima
decade del XXI secolo, l’era in cui “amico” è diventato un verbo e un
aggettivo. Un’epoca pervasa dall’imperativo della connessione persistente, che
maschera fenomeni diffusi come apatia e afasia dietro a meme, spam e promozioni
virali. Un’epoca definita - ancora una volta - da maschi eterosessuali della
classe medio- alta, alla faccia della retorica dominante che presenta il Web
come uno strumento di liberazione ed emancipazione. Se la pubblicità ha
prodotto anoressia e bulimia, Facebook celebra la fine della privacy e
glorifica la sorveglianza del panopticon interattivo. Tale logica diventa
normativa anche fuori dallo schermo: abbondano le scene in cui la macchina da
presa mostra le ragazze da dietro, ad altezza culo, un esercito di adolescenti
indistinguibili, (s)vestite come pornostar a feste e club (vedi iww.lastnightsparty.com). Fincher
descrive una società vacua e neurotica, vanitosa e darwiniana, distratta e
superficiale, in cui l’autopromozione e l’autoaffermazione in Rete
costituiscono l’unica modalità di interazione possibile con i propri simili. In
questo mondo, il trionfo di Facebook è una conseguenza al tempo stesso
necessaria e sufficiente.
Coda
A pochi
giorni dall’uscita in sala del film, Zuckerberg ha aperto il borsellino e ha
gettato 10 milioni di dollari per promuovere iniziative pedagogiche negli Stati
Unìti e riformare la scuola. Come scrive Zizek nel suo ultimo, apocalittico
saggio, la filantropia rappresenta l’ultima evoluzione dell’ideologia
capitalista.
Matteo Bittanti
(Recensione
tratta dalla rivista "Duellanti", Novembre 2010)
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