sabato 12 maggio 2012

the social network


The Social Network si apre con una scena destinata a diventare cult. Il diciannovenne studente di Harvard Mark Zuckerberg, sandali e calzini bianchi, felpa antracite Gap, viene piantato dalla sua ragazza, Erica, al termine di una conversazione nella quale il futuro fondatore di Facebook si produce in una mitragliata di osservazioni vetrioliche che rivelano la sua condizione di patologica alienazione. In questo contesto, Gap non è solo un brand , ma un’espressione del profondo “divario” - anzi, abisso - tra Zeta e gli esseri umani in generale. Il fatto che un individuo egocentrico, megalomane, incapace di provare la minima empatia per i propri simili abbia creato un sito che, almeno sullo schermo, ha la funzione di mettere in contatto le persone è solo uno degli innumerevoli paradossi della storia (micro) e della Storia (macro). A un primo livello, The Social Network racconta la vicenda del più giovane multimilionario di tutti i tempi e del suo impero virtuale fondato su tradimenti, manipolazioni e inganni reali, perlomeno nella versione narrata da David Fincher/Aaron Sorkin e, prima ancora, da Ben Mezrich, autore dell’incandescente The Accidental Billionaires. The Founding of Facebook: A Tale of Sex, Money, Genius, and Betrayal (2009), che ha ispirato il progetto. Si dice che dietro a ogni grande uomo vi sia una grande donna. È una delle innumerevoli stronzate che informano il (non)senso comune. The Social Network suggerisce piuttosto come a spingere gli uomini a realizzare imprese titaniche sia l’impossibilità stessa di stabilire relazioni sociali significative, specie con l’altro sesso (che è poi la premessa di Fight Club). Rigettato da Erica, ostracizzato ad Harvard dopo una bravata online (Facemash) che rivela ancora una volta la sua profonda misoginia, il “Punk/Milionario/Genio” - per citare i poster che tappezzano le metropolitane americane - si appropria di un’idea concepita da una trifecta di WASP maschi e sviluppa in poche settimane un sito che promuove tre valori fondamentali: popolarità a ogni costo, vanità di vanità e culto della personalità. Così facendo il paria diventa idolo, temuto e venerato in eguali dosi da cortigiani e groupies, Messia di una generazione ossessionata dal protagonismo senza limite e da forme terminali di attention deficit disorder. Poco più tardi incontriamo Sean Parker, ideale controparte e alter ego dello “$tronzo”, per usare l’elegante definizione di Enea. I due sono similmente egocentrici e paranoici, mitomani e calcolatori, ma laddove il fondatore di Napster è una rockstar, un pick-up artist che usa come battuta d’apertura «sono il CEO... Puttana!», il creep e weirdo Zeta sfiora autismo e Asperger, ossessione compulsiva e nerdume. Del resto, il messaggio del film era stato rivelato - anzi, spolierato - dalla soundtrack del trailer, una versione a cappella di Creep dei Radiohead (1992):
“I don’t care if it hurts,
I wanna have control
I want a perfect body
I want a perfect soul
I want you to notice
when I’m not around
You’re so fuckin’ special
I wish I was special”
Che poi esprime l’essenza di Facebook. Come Fight Club, The Social Network si interroga sul significato della mascolinità nella società contemporanea. Il primo descriveva una rete sociale definita dai combattimenti fisici; qui la violenza è sublimata attraverso la popolarità virtuale, ma le dinamiche sono identiche, O quasi: la prima regola di questo club è informare il numero più alto possibile di “amici”, perché il valore di una rete dipende dalle dimensioni della stessa. I social networks sono virus letali. Il capitale sociale, per dirla con Bourdieu, è la chiave per conquistare quello economico. E il capitale culturale? È del tutto inutile. I certificati sono carta igienica. Zeta, come Gates prima di lui, droppa il college, consapevole che prima o poi qualcuno gli regalerà una laurea sui generis, pardon, honoris causa.
L’unica funzione delle università è facilitare l’acquisizione del riconoscimento sociale (vedi la funzione delle cosiddette “confraternite”, che rappresentano il tessuto stesso della società americana e preparano gli individui alla vita adulta). Se nell’incipit Zeta andava in bianco, Fincher introduce Sean dopo una scopata con una studentessa di Stanford, come apprendiamo dalle mutandine color cremisi della bionda. Tanto Zeta quanto Esse anelano (e ottengono) una legittimazione sociale ed economica mediante la manipolazione delle informazioni e delle proprietà intellettuali altrui, impresa facilitata dal fatto che milioni di persone non aspettano altro che raccontare tutto di sé al primo guidatore che passa per l’«autostrada dell’informazione» (Al Gore) per godere di quindici megabit di popolarità. L’apparenza è tutto, come insegnano i “creativi”, e la felicità non è che un manifesto ai bordi della strada che strilla “va tutto bene, non preoccuparti, andrà tutto bene” (Don Draper, Mad Men). Su Facebook esistono solo leader e seguaci. La complessità del mondo è ridotta alle due macrocategorie di mipiace/nonmipiace. L’etica, come Erica, è stata rimpiazzata dagli algoritmi. L’intimità è un database e gli affetti si cancellano in tempo reale con un refresh. Zeta e i suoi adepti parlano un solo linguaggio, binario e dicotomico, che ha finito per dominare ogni tipo di performance su quel palcoscenico immateriale che ha avuto il grande merito di “democratizzare l’accesso alla Rete” e “mettermi in contatto con i compagni delle medie con cui avevo perso ogni contatto”. Per capire Facebook occorre rivedere il geniale documentario di Ondi Timoner, We Live in Public (2009), incentrato sulle imprese del geek e imprenditore Josh Harris, un Zuckerberg ante litteram ma senza la sua freddezza e autodeterminazione. Harris ha colto prima di altri (all’inizio degli anni Novanta) che l’ossessione per il controllo totale, la trasparenza orwelliana, la quantificazione/commercializzazione dei rapporti umani sarebbero diventate le caratteristiche fondamentali del XXI secolo. Zeta è riuscito a monetizzare il sogno, o meglio, l’incubo di Harris, costruendo un’infrastruttura solo apparentemente orizzontale, che invece esprime la medesima logica di potere delle corti feudali. The Social Network racconta quel mondo - il nostro - in modo obliquo e indiretto, preferendo concentrarsi sulla sua mitopoiesi (2003-2005). E lo fa in modo sublime. L’opera di Fincher possiede lo spessore narrativo e il pathos di Quarto potere. E come in Rashomon molteplici narrazioni presentate sotto forma di flashback articolano la complessità di una vicenda che sembrerebbe semplice, mettendo in dubbio la possibilità stessa di ricostruire episodi tanto banali quanto cruciali. Quelli di Sorkin non sono dialoghi, ma sessioni di chat: i monosillabi di Zeta, proferiti alla velocità della luce, alimentati da Red Bull annacquate di Stoli, protetti da un paio di cuffie. Se è vero che una società si comprende grazie a quello specchio riflettente e deformante che è il cinema, è facile prevedere che The Social Network diventerà la narrazione par excellence della prima decade del XXI secolo, l’era in cui “amico” è diventato un verbo e un aggettivo. Un’epoca pervasa dall’imperativo della connessione persistente, che maschera fenomeni diffusi come apatia e afasia dietro a meme, spam e promozioni virali. Un’epoca definita - ancora una volta - da maschi eterosessuali della classe medio- alta, alla faccia della retorica dominante che presenta il Web come uno strumento di liberazione ed emancipazione. Se la pubblicità ha prodotto anoressia e bulimia, Facebook celebra la fine della privacy e glorifica la sorveglianza del panopticon interattivo. Tale logica diventa normativa anche fuori dallo schermo: abbondano le scene in cui la macchina da presa mostra le ragazze da dietro, ad altezza culo, un esercito di adolescenti indistinguibili, (s)vestite come pornostar a feste e club (vedi iww.lastnightsparty.com). Fincher descrive una società vacua e neurotica, vanitosa e darwiniana, distratta e superficiale, in cui l’autopromozione e l’autoaffermazione in Rete costituiscono l’unica modalità di interazione possibile con i propri simili. In questo mondo, il trionfo di Facebook è una conseguenza al tempo stesso necessaria e sufficiente.
Coda
A pochi giorni dall’uscita in sala del film, Zuckerberg ha aperto il borsellino e ha gettato 10 milioni di dollari per promuovere iniziative pedagogiche negli Stati Unìti e riformare la scuola. Come scrive Zizek nel suo ultimo, apocalittico saggio, la filantropia rappresenta l’ultima evoluzione dell’ideologia capitalista.

Matteo Bittanti
(Recensione tratta dalla rivista "Duellanti", Novembre 2010)

Nessun commento:

Posta un commento