martedì 1 maggio 2012

Nuovo cinema populista


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Francis Ford Coppola l’ha spiegato con lucidità: la vera svolta epocale per il cinema degli ultimi decenni non è stata né la rivoluzione digitale né tanto meno il 3D, ma «il giorno in cui invece di chiederci se una film era bello, abbiamo cominciato a chiederci quanto aveva incassato». L’ossessione del successo, non come legittima aspirazione al maggior numero possibile di spettatori ma come scalata (la più rapida possibile) delle classifiche. Con tutto il corollario di «droghe» e «stimolanti» necessari ad arrivare in vetta subito: strategie di marketing invece del bocca- a-bocca, occupazione orizzontale dei cinema invece della penetrazione in profondità («quante copie?» è la domanda di rito ad ogni nuova uscita), offerta multipla (dai cibi alle bevande ai gadget. E non solo) invece dell’interesse per il singolo prodotto.
È il mercato, bellezza!, hanno detto in molti, senza accorgersi che in questo modo si cambiavano non solo i modi del consumo ma si stravolgeva anche la natura stessa del prodotto, pensato soprattutto per una fruizione immediata, rapida e possibilmente indolore visto che il weekend successivo bisogna essere pronti (e affamati) per una nuova «scorpacciata» di copie e di sollecitazioni.
Poco male, hanno sentenziato i soliti convinti «modernisti»: il cinema è industria ed è giusto che si evolva con il tempo, lasciandosi alle spalle linguaggi obsoleti e non al passo coi tempi. E se ne facciano una ragione i soliti snob della cultura e dell’impegno, preoccupati perché dietro i numeri poteva nascondersi qualche cosa di più preoccupante. Come il fatto che dei 363 film usciti nel 2011 in Italia, i primi 12 hanno incassato il 30 per cento del mercato, i primi 28 il 50, i primi 180 il 95 per cento. E tra gli altri 183 che si sono dovuti accontentate del 5 per cento del mercato (cioè meno di 5 milioni di euro) ci sono film che hanno vinto ai festival di Venezia (Faust), di Berlino (Una separazione) o di Roma (Kill Me Please), che sono stati applauditi a Cannes (Le nevi del Kilimangiaro) o al Sundance (Un gelido inverno). E che all’estero hanno ottenuto incassi molto, ma molto più interessanti.
Pazienza, la cultura non serve a stabilire nessuno spread (escluso quello del livello di civiltà, ma le Borse se ne disinteressano. E i bocconiani anche), se non fosse che questa specie di sotterranea rivoluzione cinematografica sta trasformando — insieme ad altri fattori, ovviamente — non solo i gusti del consumo ma anche i modi del pensare. E dell’agire. È come quando insegnano a scuola l’origine dei fiumi: un piccolo rivolo si unisce casualmente ad altri, nati per altre ragioni, ma tutti attratti da una certa pendenza del terreno, tutti incanalati da una certa conformazione orografica. E alla fine ti trovi un fiume che nessuno riesce più ad arginare, grosso e impetuoso. Dove puoi solo lasciarti andare alla forza delle corrente.
Quel fiume si chiama populismo.
Secondo molti politologi è la malattia del Terzo Millennio, la reazione nemmeno tanto sorprendente alla degenerazione della politica, della finanza, della corruzione. Il vero cancro della democrazia. Ma i suoi effetti non si curano solo con i governi tecnici o le leggi anticorruzione. Serve anche una specie di nuova «rivoluzione» culturale, capace di ristabilire una corretta scala di valori e di rimettere coi piedi per terra quello che sembra ondeggiare ben più di 3 metri sopra il cielo. Anche a partire dal cinema.
L’accostamento non stupisca. Il populismo non è nato nei libri di politica ma nei dibattiti letterari. Era il 27 agosto 1929 quando Léon Lemonnier pubblicava su «L’Oeuvre» Un manifeste littéraire: le roman populiste (Un manifesto letterario: il romanzo populista) dove difendeva un nuovo modo di scrivere, attento ai personaggi del popolo, più attratto da storie urbane che ambientate nelle campagne, anti-modernista e soprattutto capace di resistere al fascino del romanzo borghese (con le sue inquietudini e le sue debolezze) per esaltare le vite «povere e mediocri». La storia letteraria si è incaricata di rimettere le cose a posto, ridimensionando il valore di scrittori come Henry Poulaille, André Thérive e lo stesso Lemonnier (forse siamo disposti a salvare solo Eugène Dabit e il suo Hotel du Nord, ma per via del film con Annabella, Aumont, Arletty e Jouvet, Albergo Nord), ma quel modo di guardare intorno a noi, mescolando pietismo e sensi di colpa (che poi sono i prodromi del politicamente corretto), compiacimento miserabilista e (finto) antisnobismo ha finito per rispuntare, favorito da un più generale disinteresse, per non dire disprezzo, verso i valori che fino a ieri andavano per la maggiore. Anche nella cultura. Anche nel cinema.
L’egemonia stracultista
Scriveva nel 1999 Marco Giusti nell’introduzione del suo Dizionario dei film italiani stracult: «Vedevo di tutto e contemporaneamente. Mischiavo Fuller con Baldanello, Antonioni con Bergonzelli. Nello stesso giorno vidi Il laureatoQualcuno verrà e Pecos è qui, prega o muori. Snob? Non credo. Mi piaceva vedere i film, fare lo spettatore». Difficile dargli torto: se uno spettatore non è onnivoro che spettatore è? Ma quando nel 2004 la Mostra del cinema di Venezia (direttore Marco Müller) decise di dedicare la propria retrospettiva a una sedicente «Storia segreta del cinema italiano — The Kings of the B’s», con titoli come W la foca e Cannibal Holocaust, decretando «la rivincita di un cinema, oggi quasi completamente scomparso, su un sistema produttivo che lo ha distrutto» (sempre Giusti scripsit) ecco che lo snobismo dello spettatore bulimico si trasforma in qualcosa di ben più ambiguo. E pericoloso. Ribaltando le gerarchie (e con il solito vizio italiano di salire sempre sul carro dell’ultimo vincitore) si finisce per imporre una nuova scala di valori, dove gusto goliardico ed elogio del disimpegno, piacere dell’oltraggio e rivalutazione del rimosso, voglia di provocazione e spregio della tradizione finiscono per mescolarsi in un galateo dell’antigalateo. In un nuovo (e più subdolo) populismo cinefilo.
Se dovessi indicare un campione nazionale per questo nuovo «filone», penserei immediatamente a I soliti idioti e al loro gusto finto libertario di fustigatori dei vizi nazionali, dove lo specchio della realtà lascia il posto a una deformazione solo compiaciuta (e solo funzionale al meccanismo della risata). Ma mi vengono in mente, tanto per restare alle uscite più recenti, anche Benvenuti al Nord o Come è bello far l’amore. Il primo per aver trasformato il meccanismo di bonaria critica antirazzista di Benvenuti al Sud (con il suo messaggio di fratellanza interregionale) in un campionario di luoghi comuni acritici (dall’ossessione lavorativa del Nord all’efficienza «marchionnesca») che alla fine vengono accettati ed esaltati; il secondo per aver banalizzato — e sfruttato — il tema dell’erotismo familiare in nome di una finta e superficialissima liberazione sessuale piccoloborghese (la trasgressione della dark room!). Stendendo un pietoso velo sull’inutile tirata antintellettualistica con cui si apre il film e di cui fanno le spese gli incolpevoli fratelli Lumière e qualche bravo regista di casa nostra.
Senza dimenticare la pretesa filiazione di questo cinema dalla commedia all’italiana, parafulmine spesso tirato in ballo — populisticamente — da chi vuole inventare quarti di nobiltà ai film comici di oggi, cercando una spiegazione intellettualistica (o giornalistica, che poi sono termini che hanno finito per essere considerati sinonimi) al nostro bisogno di ridere. Si dimentica che spesso le battute migliori sono nate anche dall’usare un linguaggio «basso» (come una parolaccia) per concludere un argomento «alto» (o che si vorrebbe tale). Ma se rivediamo una qualsiasi delle vere commedie all’italiana (quelle prodotte grossomodo tra il 1958 e la fine degli anni Sessanta) balza all’occhio che la comicità non si limitava ai «vaffa…» o ai «dai c…!» (peraltro rarissimi in quei film), ma era centrata sulla capacità di prendere le distanze da quello che si raccontava, mettendo alla berlina con cattiveria (e molta, anche) i vizi e i difetti portati in scena. Si rideva, del padre che insegna al figlio a essere disonesto (come accade nei Mostri), ma poi il contrappasso arrivava. Ci si lustrava gli occhi di fronte alla Loren in guêpière (inIeri, oggi, domani), ma gli ululati di Mastroianni ci parlavano anche del maschio italiano, bamboccione e succube del padre. D’accordo ridendo, ma anche castigat mores.
Sarebbe troppo facile però buttare tutte le colpe su questo o quel film, rei di cavalcare un disimpegno fatto quasi esclusivamente di luoghi comuni. O sulla tendenza, che si vede soprattutto nelle commedie, di cancellare la responsabilità dell’io a favore di un moltiplicarsi indifferenziato di soggetti narrativi che finiscono per cancellare psicologie e moralità in funzione del puro e semplice meccanismo comico: oggi è la gag o la battuta che giustifica l’esistenza sullo schermo di un personaggio e non viceversa, come ci avevano insegnato la commedia all’italiana e i suoi protagonisti a tutto tondo.
La sindrome di Totò
No, spesso la vera molla di una degenerazione di tipo populista viene proprio da chi dovrebbe cercare di arginare questa tendenza. Dai giornalisti che si inventano dibattiti su film che non lo meritano, gratificando di un valore (e di un contenuto) opere che invece ne sono prive e finendo, per puro spirito di polemica, a trovare qualità dove non ce ne sono. Dai critici che per paura di essere scavalcati non si sa dove, a destra o a sinistra, si attrezzano per ogni possibile rivalutazione a futura memoria di fronte a film minimi o minimissimi, timorosi di essere inseguiti dalla «vendetta di Totò», il campione indiscusso dei geni rivalutati post mortem (salvo scoprire che lui vivo e vegeto c’erano stati fior di ammiratori pronti a spendere lunghi e motivati elogi al «principe della risata» da Bontempelli a Soldati, da Benayoun a Pasolini, da Fofi a Spinazzola. Ma oramai quello del nemo propheta in vita è un luogo comune che va per la maggiore. E che fa comodo — populisticamente — a tutti).
Senza dimenticare poi le responsabilità dei direttori di festival e degli organizzatori culturali che alla ricerca disperata di un consenso di massa, disposti a giocare con le parole e i concetti pur di giustificare tutto e il contrario di tutto, la cultura e l’anticultura, il nuovo e il vecchio, il popolare e il raffinato, il masscult e il midcult e compagnia cantante. Tutti insieme alla ricerca di un consenso che non disturbi nessuno e gratifichi tutti. Che poi è la vera essenza del populismo.
Paolo Mereghetti

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