Gli aficionados del Plastic si danno appuntamento al bar dei cinesi, cento metri di distanza dalla meta. Una sambuca, due; e poi tre. “Meglio con il ghiaccio”, dice uno “così si allunga un po’”. Sguardo all’orologio, è mezzanotte passata. Tutti i baretti della zona sono aperti, affari facili stasera. “Dai, che la luna è quasi piena”. Sembra un presagio. È il rito dionisiaco del venerdì. L’ultimo venerdì. Perché il Plastic, discoteca culto milanese, trasloca: “Stavolta è vero” giura il proprietario, “ancora oggi e domani e poi basta”. E arrivederci in via Gargano. Cronaca di una chiusura, per scoprire se la notte è ancora lo specchio della gioventù che cerca di esprimersi, in fuga dall’ordinario, dai tabù, dalle insoddisfazioni.
Innanzitutto, però, cos’è il Plastic? A domanda, la miglior risposta la serve Noemi, piccola stylist tutta frangetta e tatuaggi: “Se arrivano degli amici berlinesi dove li vuoi portare?” sentenzia. “Mica all’Hollywood o da Armani: il vero club di Milano è qui”. Da 31 anni, in un angolo di viale Umbria, civico 120, tra posteggi selvaggi, rotaie e lavori in corso. Fuori, la coda è barbarica. “Son tre mesi che ci provo”, dice il trasfertista salentino scuro in volto, felpa e cappellino. C’è la lista, ci son gli habitué, “quelli invece entrano sempre”. Pure due sciarmose fanciulle della Milano bene, Ginevra e Ondina, accolte ovunque, qua devono sgomitare. “Uff, non entriamo”, se ne vanno.
Impronte di mani sul muro, il corridoio intasato che più non si può, chi entra punta dritto dritto al bancone. Due vodka lemon, chiede un tale. “Ok!” risponde Pinky, matrona “rock” del locale, stazza forte, capello corto, ritmo nel sangue. “Niente bancomat”, solo contanti. Va in scena il solito scenario di mondanità cheap, designer modaioli e pierre presenzialiste. Tutti amici, tranne qualcuno. Chi esagera, infatti, va fuori: “Siamo seri, radicali e rigorosi” dice Nicola Guiducci, il proprietario. “E selettivi” aggiunge il suo socio. Per loro, è uno dei segreti del successo del club.
Tra il vociare compulsivo e i balli pazzi, ci si muove avanti e indietro. Verso il dancefloor, nella sala, c’è uno scalino traditore. Chi non lo sa, inciampa. “Dove andremo, zona Ripamonti, non ce ne saranno più” ridacchia Guiducci, produttore classe 1960, oltre 30 anni di Plastic alle spalle, tra sottoboschi musicali e avanguardie di stile. “Domani piangerò, sicuro, ma sono entusiasta di cambiare”. Era il 23 dicembre 1980: “La cosa incredibile è che, oggi, vengono i figli dei clienti di allora”. Poco dopo, un ragazzo, dall’alto, si apre i pantaloni, scena sopra le righe ovunque ma non qui. Stefano, cantante, 26 anni, frana rovinosamente sulla folla dalla ringhiera. La cubista, costume intero maculato, lacrima del clown dipinta sul volto, lo guarda attonita, occhio spento. Lui si rialza, chiede scusa. Finirà al Policlinico con un dito rotto e sanguinante.
Ma fa parte del gioco. “Il Plastic è un magma di delirio, ormoni e felicità” dice Enrico. Suona in una band (i Chaos Surfari), hanno aperto addirittura per i Kasabian. Al Plastic, però, ha fatto pure il barista fin da quando, al posto del bancone, c’era ancora una bicicletta da gelataio. “Il segreto è il mix di musica e sottocultura che rende questo luogo unico fin dai tempi dei punk e dei mods”. Negare un bacio, tra le sale è quasi reato. Le toilette sprizzano erotismo hardcore, piastrelle a scacchi bianchi e neri per terra, vespasiani al muro. Limonate? “No, vitamina C!” le chiamano. E se un ragazzo siede al buio, arriva una carezza: “Cos’hai? Tutto ok?”. Nel privé, aperto dall’1.30, i brindisi rumorosi si sprecano. Soffitto basso, lampadari di ottone e cristalli appesi, c’è la house, il revival e il biondo platinato corto che spopola tra le donne e i gay, vera anima del locale. “Ma è l’unico posto dove una donna può venire da sola”, secondo Guiducci. “Faccio serata al Plastic da 20 anni” conferma Lara, infermiera al San Paolo. “Dalla Toscana ai club di Riccione, ho trovato la mia casa qui”.
Trecento persone, dice la legge. Almeno 500, invece, invadono il Plastic. Fuori, nella “smoking area” (quattro transenne sul marciapiede), una ragazza in tuta e shorts di jeans ammicca a un fumatore: “Ma quanto sono buone le sighe?”. Lui annuisce languido, gli piace. Se la notte e le discoteche vivono tempi di crisi, basta venire qui per constatare l’esatto contrario. Intanto, Stefano è ancora al Policlinico. Testa che pulsa, voce impastata. “Che chiusura!” impreca. “E pensare che il Plastic mi ha viziato e cresciuto”. E mentre la gente se ne va, che dire allora della notte? “Voglia di volare” canticchia una donna magra magra, “di sentirsi vivi”. Oggi come ieri, forse, in realtà, nulla è cambiato. Due ragazze svedesi provano a entrare di nascosto, scavalcando. Annika entra, Anja no. Beccata. Prova di nuovo, sarai più fortunata.
1 commento:
Ah ahaa h ah ah ah ah ah ah ah ah, FROCI ED ORA ANCHE SENZATETTO! Ma ribadisco: FROCIIIIIIIIIIIIIIIII !!!!!
Posta un commento