L' albero della libertà deve essere innaffiato con il sangue dei patrioti e dei tiranni. È un concime naturale
Thomas Jefferson
L' inizio della fine, ha titolato la Berliner Zeitung , in prima pagina, vicino alla foto di un anziano operaio che, controllato a vista da un giovane militare della Ddr, mette la calce su alcuni grandi cubi di pietra nella Bernanuerstrasse, dove oggi sorge il Memoriale che diventerà uno dei nuovi luoghi della memoria in questa città che non vuole dimenticare il suo passato. Forse non c' era frase migliore per ricordare i 50 anni della costruzione del Muro di Berlino: un anniversario che la Germania ha celebrato ieri con grande determinazione e non senza qualche polemica sul «giustificazionismo» dell' estrema sinistra. Fu l' inizio della fine, per un regime e per un sistema. Certo, ci vollero 28 anni, tante vittime (sono 136 i morti «ufficiali» tra coloro che tentarono di fuggire, ma secondo molti ricercatori questa cifra può arrivare anche a 700 persone) e sofferenze sterminate prima di vedere veramente cadere (anzi «rovesciare» come ha detto ieri il presidente tedesco Christian Wulff) questo emblema drammatico della follia e dell' abbaglio ideologico. La mattina del 13 agosto 1961 Berlino si svegliò divisa. Famiglie separate, case spezzate a metà, vite sradicate. Perfino il centravanti dell' Hertha, Klaus Taube, che abitava ad Est, non riuscì a raggiungere i suoi compagni di squadra che dovevano giocare. Nessuno si aspettava, nemmeno Willy Brandt, allora sindaco della città, che il leader della Germania comunista Walter Ulbricht avrebbe deciso di dare il via all' «Operazione rosa» che costò alla Ddr, nei successivi 28 anni, 400 milioni di marchi. Certo, l' uomo che sarebbe diventato il grande cancelliere della Ostpolitik proprio il giorno prima di quel 13 agosto aveva espresso il timore che la cortina di ferro sarebbe stata «cementata». Quella di Brandt non era un' allusione a qualcosa che si sapeva, ha detto ieri l' ex ministro Egon Bahr (89 anni, una delle teste più lucide, da sempre, della Spd), ma solo la sensazione che il flusso di profughi verso Ovest non avrebbe potuto continuare a lungo. Così come chi ha vissuto quei giorni pensa che probabilmente non arrivò sui tavoli giusti il dispaccio 42888 dell' 11 agosto 1961 dei servizi segreti della Germania Ovest che conteneva, come ha rivelato nei giorni scorsi la Süddeutsche Zeitung , la frase «chiusura del confine tra i settori». In quel dispaccio, però, non c' era sicuramente scritto che il Muro sarebbe stato lungo 167,8 chilometri e alto 3,60 metri, che avrebbe avuto 302 torrette di sorveglianza e che 11.500 soldati e 992 cani lo avrebbero controllato ventiquattro ore su ventiquattro. Di chi fu la colpa? «Tra gli storici e gli esperti tedeschi si dà ormai per acquisito che fu Ulbricht a voler chiudere il confine e non i sovietici. Ma la maggioranza dei cittadini tedeschi attribuisce invece la responsabilità a Mosca, alla guerra fredda e al conflitto tra l' Unione Sovietica e gli americani», ha detto al New York Times Hope M. Harrison, docente di storia alla George Washington University. Sulle grandi responsabilità dell' uomo che aveva dichiarato «non c' è nessuna intenzione di costruire un Muro», si è soffermato recentemente anche Klaus-Dietmar Henke, che insegna Storia contemporanea all' Università di Dresda. Per la co-presidente della Linke (il partito di estrema sinistra nato dalle ceneri del post-comunismo tedesco orientale), Gesine Lötsch, la nascita del Muro è stata un risultato dell' invasione tedesca dell' Urss. Le parole della Lötsch non sono passate inosservate. Non c' è ricorrenza senza polemiche, anche perché, contrariamente a quanto si potrebbe credere, la parola Streit (litigio) ricorre molto spesso nelle cronache della politica tedesca. C' è da dire che il clima era già nervoso e che aveva iniziato per primo uno dei leader dei cristiano-sociali, Alexander Dobrindt, secondo cui la Linke andrebbe messa «sotto osservazione» dal punto di vista costituzionale, perché vuole sovvertire il sistema e creare una società socialista. Il giustificazionismo storico della co-presidente della Linke e stato messo sotto accusa dallo stesso Dobrindt, dal segretario generale cristiano-democratico, Hermann Gröhe, dal leader liberale e ministro dell' Economia nel governo Merkel, Philipp Rösler. Il segretario generale della Fdp, Christian Lindner ha definito la Lötsch «l' ultimo portavoce governativo della Ddr». La posta in gioco è politica, perché la Linke governa con i socialdemocratici sia in Brandeburgo che a Berlino, dove si vota il 18 settembre. Non è un caso che Gröhe abbia attaccato direttamente la Spd osservando che chi è amico della Stasi non è un partner di coalizione affidabile. I Verdi hanno preso le distanze dalla polemica, nella quale è intervenuto anche il cantautore Wolf Biermann, che scelse di trasferirsi nella Ddr e poi ruppe con le autorità comuniste, accusando i dirigenti della Linke (che non la pensano però tutti come la Lötsch) di essere gli eredi della nomenklatura tedesco orientale e dello stalinismo. Ma che la ferita sia aperta e che tutto questo non sia solo una scaramuccia pre-elettorale lo dimostra il fatto che tanto il presidente Wulff in un' intervista alla Welt («molti si erano abituati al Muro e lo minimizzarono: si facevano piuttosto manifestazioni di solidarietà per i sandinisti del Nicaragua») quanto, soprattutto, il sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit nel discorso ufficiale («è spaventoso che ci siano persone per le quali il partito unico tedesco orientale aveva buoni motivi per rinchiudere i propri cittadini») siano entrati, anche se indirettamente, nella mischia. Al di là delle polemiche, Berlino ha da ieri una nuova, grande sezione del memoriale del Muro. È stata ricostruita la «striscia della morte» che rendeva impossibile ogni fuga all' aperto, sono state fatte riaffiorare le tracce dei tunnel scavati per tentare di scappare, è stata esposta la croce della chiesa i cui resti furono distrutti perché ostacolava il controllo del confine. «Un luogo di apprendimento, ricordo e commemorazione», ha detto il presidente della fondazione del Muro, Axel Klausmeier. L' esatto contrario del mercato della nostalgia che si è creato con gli anni nei dintorni del Checkpoint Charlie, con i venditori di cianfrusaglie, i soldati in divisa per le foto dei turisti, le Trabant con cui fare un giro panoramico: una sorta di Disneyland che sono in molti, da tempo, a voler tentare di rendere meno kitsch. Cosa era il Muro lo si capisce molto meglio alla mostra Aus andererer Sicht, guardando i volti (gli occhi coperti da rettangoli grigi) degli agenti tedesco orientali che hanno avuto onorificenze e medaglie per essersi distinti nello sventare i tentativi di passare dall' altra parte dei loro compatrioti. Oppure bisogna andare al museo della Stasi, un grande palazzo squadrato rimasto come un tempo. Nell' atrio il furgone degli interrogatori, nelle bacheche gli strumenti della sorveglianza o dell' offesa: le macchine fotografiche nei bottoni, le ricetrasmittenti nelle spille delle cravatte, i mitra smontati nelle valigette ventiquattr' ore. Ma il Muro può essere dappertutto, anche quando è invisibile. Può essere perfino, sullo sfondo, come la materializzazione di un incubo, tra i violenti colori dei quadri, esposti in questi giorni alla Berlinische Galerie , di un artista «occidentale» come Rainer Fetting. Perché è stato un incubo durato troppo a lungo.
1961 Il 13 agosto le autorità della Germania Est, per fermare l' afflusso di profughi verso il settore occidentale di Berlino, avviano la costruzione del Muro che spezza in due la città
1989 Il 9 novembre la crisi di regime induce il governo della Germania Est a legalizzare il transito dei cittadini in Occidente.
Gli Usa apprezzarono una Ddr blindata: quando il Muro di Berlino venne costruito, la protesta del governo americano fu aspra. Due anni dopo, l' allora presidente Usa John Kennedy avrebbe personalmente portato la sua solidarietà alla città spezzata in due. Ma la diplomazia ragionava in modo diverso, come emerge dai documenti segreti declassificati che il National Security Archive, ente legato alla George Washington University, ha appena pubblicato sul suo sito. Colpisce in particolare il dispaccio (datato 24 luglio 1961), in cui l' ambasciatore a Mosca, Llewellyn Thompson, osservava che gli Stati Uniti e la Germania Ovest avrebbero ricavato «vantaggi di lungo termine» se i potenziali profughi tedeschi fossero rimasti a Est, perché così si sarebbe allentata la tensione su Berlino, che costituiva il punto più delicato di crisi tra Occidente e blocco sovietico. Allo stesso modo il segretario di Stato Dean Rusk, in agosto, disse in sede riservata che la mossa compiuta da Krusciov e Ulbricht non costituiva una minaccia agli interessi vitali dell' Occidente. In fondo il Muro avrebbe stabilizzato la Germania comunista, osservava, e reso quindi i sovietici meno aggressivi sulla questione di Berlino.
Paolo Lepri
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