Qualcuno spieghi all'"esperto di tecnologia"di Repubblica il concetto di "parodia" del profilo di Kissinger su Twitter prima di citarlo nei titoli
by bucknasty
lunedì 29 agosto 2011
domenica 28 agosto 2011
Edi Rama + Anri Sala, Tirana, Dammi i colori
Architecture + Art : Edi Rama & Anri Sala from The Architecture Foundation on Vimeo.
When former artist Edi Rama became mayor of Tirana in 2000 he immediately set upon a controversial project to enliven the troubled Albanian capital by re-painting the city’s decaying buildings in a riotous array of colour and pattern. An aesthetic and political act, which prompted social transformation, and much debate, through its visualization of signs of change. Three years later Rama and the project became the subject of artist (and friend) Anri Sala’s film, Dammi I Colori. The next year, Rama was voted World Mayor 2004.
sabato 27 agosto 2011
venerdì 26 agosto 2011
giovedì 25 agosto 2011
martedì 23 agosto 2011
lunedì 22 agosto 2011
rip u2
Esistono fuochi indimenticabili, mai però eterni. Prima o poi si spengono. E l'incendiario diventa pompiere. Nessuno, nella musica, incarna questa involuzione piccolo borghese come Bono Vox. Cosa è successo al leader degli U2, alla voce salva degli Anni Ottanta? Dov'è finito il divo tascabile che si tuffava sul pubblico al Live Aid, cantando di domeniche sanguinose e Martin Luther King, desaparecidos e strade senza nome?
Paul Hewson, cioè Bono Vox, nome ispirato a un negozio di cornetti acustici, ha 51 anni. Capelli corti, occhiali che in confronto Venditti è sobrio, qualche malanno (a maggio è stato operato per problemi al nervo sciatico). Voce ormai lontana dai tempi d'oro, quando ogni suo cinguettio - fosse anche palesemente narciso - si rivelava funzionale alle trame sonore, al messaggio, all'impatto.
Quando Bono era Bono, persino ostentazione e tamarraggine di capelli lunghi e pantaloni in pelle risultavano necessari. Erano gli U2, gli irlandesi ribelli, i romantici non mielosi: tutto gli era concesso. Ancor più dopo Achtung Baby, gemma che festeggia 20 anni e non ha perso un'oncia della sua rifulgente bellezza.
Tempi lontani, come naturale che sia per un gruppo attivo da 35 anni. Il minimo che può accaderti è che da The Unforgettable Fire - il fuoco indimenticabile dell'84 - a oggi, sia rimasto giusto qualche cerino bagnato. Ligabue, che a inizio carriera rimpolpava il repertorio con le loro canzoni, cita Bono quale esempio di vecchiaia felice per i rocker.
La sua ulteriore maniera di ripetere che non devi per forza crepare a 27 anni per consegnarti alla leggenda. Ha ragione. Dimentica però - e non è escluso che la smemoratezza derivi dal rendersi conto di somigliargli - che Bono vive ancora in mezzo a noi. Ma non lotta più. In compenso si arricchisce. Tanto. E qualcuno, nel suo piccolo, si indigna.
bono vox
Lo scorso 24 giugno, durante il concerto di Glastonbury, gli attivisti di Art Uncut hanno ricordato alla band come suoni ipocrita combattere contro la povertà e, al tempo stesso, non pagare le tasse in Irlanda. La U2 Limited, che gestisce parte del patrimonio, è stata infatti dirottata nei più "ospitali" Paesi Bassi.
Mercoledì scorso si è poi saputo che Bono, tramite la Elevation Partners, aveva investito 200 milioni di dollari per acquistare una quota azionaria di Facebook. Questa mossa gli ha regalato 800 milioni di dollari di profitto. Un anno fa, Bono era stato definito "il peggior investitore in America" da un blog di finanza: se non altro, almeno come speculatore è migliorato.
Mister Hewson è prima un quasi-politico e poi, molto poi, un rocker (afono). Dal 1999 fa parte di Jubilee 2000, che si batte perché i grandi (?) del mondo azzerino i debiti dei Paesi del Terzo Mondo. Ha incontrato Lula, Berlusconi, Bush Jr. Ogni volta, addobbato come un cowboy daltonico, esibiva il sorriso di chi salverà il mondo in favore di telecamera. Nel frattempo la musica è scomparsa. Non le vendite, tuttora notevoli e figlie di un serbatoio emotivo smisurato (sì, la nostalgia).
C'è poco o nulla da salvare nella elettronica chemical-kitsch di Pop (1997) e nelle meringhe diabetiche di All That You Can't Leave Behind (2000) e How To Dismantle A Bomb (2004). Qualche segnale di ripresa era arrivato con No Line On The Horizon, uscito due anni fa ma di fatto già dimenticato.
Bono a St. Tropezbono
Non puoi chiedere a un rivoluzionario di reiterare ad libitum la sua iconoclastia, ma nel caso degli U2 - oltre alla legittima consunzione di idee - c'è un perdurante annacquamento, al cui confronto perfino il baronetto furbino Paul McCartney sembra Che Guevara.
Ci si potrebbe divertire - si fa per dire - a trovare il giorno in cui tutto finì. Quando i bambini imbronciati in copertina, gli alberi di Giosuè, i riferimenti biblici, i pellegrinaggi a Graceland, le Bad dilatate a 15 minuti, Macphisto, gli sberleffi a McDonald's e i live sotto un cielo rosso sarebbero divenuti fuochi (mai fatui) di un passato irripetibile. Quel giorno, forse, cadde a metà 1993. L'anno di Zooropa, nato come "scarto" di Achtung Baby e meritevole di rivalutazione (visto quel che è arrivato dopo).
L'ultima foto degli U2 da vivi è nascosta dentro l'ultima canzone. Si intitola The Wanderer, "Il vagabondo". È una sorta di brano post-apocalittico e la canta Johnny Cash. Gli U2 vollero rendere un tributo a una leggenda in difficoltà. Un bel gesto, che parve somigliare all'ultimo saluto all'Uomo in Nero.
Accadde il contrario. Dopo quella canzone, Cash convogliò inspiegabilmente le ultime forze e si congedò con la saga straziante delle American Recordings. Album così belli che quasi non ce la fai ad ascoltarli, in grado di scorticare coscienze e cuori. E gli U2? Erano sulla cresta dell'onda. Avevano una lunga strada davanti. O forse era solo un grande futuro dietro le spalle.
Andrea Scanzi per Il Fatto
Paul Hewson, cioè Bono Vox, nome ispirato a un negozio di cornetti acustici, ha 51 anni. Capelli corti, occhiali che in confronto Venditti è sobrio, qualche malanno (a maggio è stato operato per problemi al nervo sciatico). Voce ormai lontana dai tempi d'oro, quando ogni suo cinguettio - fosse anche palesemente narciso - si rivelava funzionale alle trame sonore, al messaggio, all'impatto.
Quando Bono era Bono, persino ostentazione e tamarraggine di capelli lunghi e pantaloni in pelle risultavano necessari. Erano gli U2, gli irlandesi ribelli, i romantici non mielosi: tutto gli era concesso. Ancor più dopo Achtung Baby, gemma che festeggia 20 anni e non ha perso un'oncia della sua rifulgente bellezza.
Tempi lontani, come naturale che sia per un gruppo attivo da 35 anni. Il minimo che può accaderti è che da The Unforgettable Fire - il fuoco indimenticabile dell'84 - a oggi, sia rimasto giusto qualche cerino bagnato. Ligabue, che a inizio carriera rimpolpava il repertorio con le loro canzoni, cita Bono quale esempio di vecchiaia felice per i rocker.
La sua ulteriore maniera di ripetere che non devi per forza crepare a 27 anni per consegnarti alla leggenda. Ha ragione. Dimentica però - e non è escluso che la smemoratezza derivi dal rendersi conto di somigliargli - che Bono vive ancora in mezzo a noi. Ma non lotta più. In compenso si arricchisce. Tanto. E qualcuno, nel suo piccolo, si indigna.
bono vox
Lo scorso 24 giugno, durante il concerto di Glastonbury, gli attivisti di Art Uncut hanno ricordato alla band come suoni ipocrita combattere contro la povertà e, al tempo stesso, non pagare le tasse in Irlanda. La U2 Limited, che gestisce parte del patrimonio, è stata infatti dirottata nei più "ospitali" Paesi Bassi.
Mercoledì scorso si è poi saputo che Bono, tramite la Elevation Partners, aveva investito 200 milioni di dollari per acquistare una quota azionaria di Facebook. Questa mossa gli ha regalato 800 milioni di dollari di profitto. Un anno fa, Bono era stato definito "il peggior investitore in America" da un blog di finanza: se non altro, almeno come speculatore è migliorato.
Mister Hewson è prima un quasi-politico e poi, molto poi, un rocker (afono). Dal 1999 fa parte di Jubilee 2000, che si batte perché i grandi (?) del mondo azzerino i debiti dei Paesi del Terzo Mondo. Ha incontrato Lula, Berlusconi, Bush Jr. Ogni volta, addobbato come un cowboy daltonico, esibiva il sorriso di chi salverà il mondo in favore di telecamera. Nel frattempo la musica è scomparsa. Non le vendite, tuttora notevoli e figlie di un serbatoio emotivo smisurato (sì, la nostalgia).
C'è poco o nulla da salvare nella elettronica chemical-kitsch di Pop (1997) e nelle meringhe diabetiche di All That You Can't Leave Behind (2000) e How To Dismantle A Bomb (2004). Qualche segnale di ripresa era arrivato con No Line On The Horizon, uscito due anni fa ma di fatto già dimenticato.
Bono a St. Tropezbono
Non puoi chiedere a un rivoluzionario di reiterare ad libitum la sua iconoclastia, ma nel caso degli U2 - oltre alla legittima consunzione di idee - c'è un perdurante annacquamento, al cui confronto perfino il baronetto furbino Paul McCartney sembra Che Guevara.
Ci si potrebbe divertire - si fa per dire - a trovare il giorno in cui tutto finì. Quando i bambini imbronciati in copertina, gli alberi di Giosuè, i riferimenti biblici, i pellegrinaggi a Graceland, le Bad dilatate a 15 minuti, Macphisto, gli sberleffi a McDonald's e i live sotto un cielo rosso sarebbero divenuti fuochi (mai fatui) di un passato irripetibile. Quel giorno, forse, cadde a metà 1993. L'anno di Zooropa, nato come "scarto" di Achtung Baby e meritevole di rivalutazione (visto quel che è arrivato dopo).
L'ultima foto degli U2 da vivi è nascosta dentro l'ultima canzone. Si intitola The Wanderer, "Il vagabondo". È una sorta di brano post-apocalittico e la canta Johnny Cash. Gli U2 vollero rendere un tributo a una leggenda in difficoltà. Un bel gesto, che parve somigliare all'ultimo saluto all'Uomo in Nero.
Accadde il contrario. Dopo quella canzone, Cash convogliò inspiegabilmente le ultime forze e si congedò con la saga straziante delle American Recordings. Album così belli che quasi non ce la fai ad ascoltarli, in grado di scorticare coscienze e cuori. E gli U2? Erano sulla cresta dell'onda. Avevano una lunga strada davanti. O forse era solo un grande futuro dietro le spalle.
Andrea Scanzi per Il Fatto
domenica 21 agosto 2011
50 anni di muro
L' albero della libertà deve essere innaffiato con il sangue dei patrioti e dei tiranni. È un concime naturale
Thomas Jefferson
L' inizio della fine, ha titolato la Berliner Zeitung , in prima pagina, vicino alla foto di un anziano operaio che, controllato a vista da un giovane militare della Ddr, mette la calce su alcuni grandi cubi di pietra nella Bernanuerstrasse, dove oggi sorge il Memoriale che diventerà uno dei nuovi luoghi della memoria in questa città che non vuole dimenticare il suo passato. Forse non c' era frase migliore per ricordare i 50 anni della costruzione del Muro di Berlino: un anniversario che la Germania ha celebrato ieri con grande determinazione e non senza qualche polemica sul «giustificazionismo» dell' estrema sinistra. Fu l' inizio della fine, per un regime e per un sistema. Certo, ci vollero 28 anni, tante vittime (sono 136 i morti «ufficiali» tra coloro che tentarono di fuggire, ma secondo molti ricercatori questa cifra può arrivare anche a 700 persone) e sofferenze sterminate prima di vedere veramente cadere (anzi «rovesciare» come ha detto ieri il presidente tedesco Christian Wulff) questo emblema drammatico della follia e dell' abbaglio ideologico. La mattina del 13 agosto 1961 Berlino si svegliò divisa. Famiglie separate, case spezzate a metà, vite sradicate. Perfino il centravanti dell' Hertha, Klaus Taube, che abitava ad Est, non riuscì a raggiungere i suoi compagni di squadra che dovevano giocare. Nessuno si aspettava, nemmeno Willy Brandt, allora sindaco della città, che il leader della Germania comunista Walter Ulbricht avrebbe deciso di dare il via all' «Operazione rosa» che costò alla Ddr, nei successivi 28 anni, 400 milioni di marchi. Certo, l' uomo che sarebbe diventato il grande cancelliere della Ostpolitik proprio il giorno prima di quel 13 agosto aveva espresso il timore che la cortina di ferro sarebbe stata «cementata». Quella di Brandt non era un' allusione a qualcosa che si sapeva, ha detto ieri l' ex ministro Egon Bahr (89 anni, una delle teste più lucide, da sempre, della Spd), ma solo la sensazione che il flusso di profughi verso Ovest non avrebbe potuto continuare a lungo. Così come chi ha vissuto quei giorni pensa che probabilmente non arrivò sui tavoli giusti il dispaccio 42888 dell' 11 agosto 1961 dei servizi segreti della Germania Ovest che conteneva, come ha rivelato nei giorni scorsi la Süddeutsche Zeitung , la frase «chiusura del confine tra i settori». In quel dispaccio, però, non c' era sicuramente scritto che il Muro sarebbe stato lungo 167,8 chilometri e alto 3,60 metri, che avrebbe avuto 302 torrette di sorveglianza e che 11.500 soldati e 992 cani lo avrebbero controllato ventiquattro ore su ventiquattro. Di chi fu la colpa? «Tra gli storici e gli esperti tedeschi si dà ormai per acquisito che fu Ulbricht a voler chiudere il confine e non i sovietici. Ma la maggioranza dei cittadini tedeschi attribuisce invece la responsabilità a Mosca, alla guerra fredda e al conflitto tra l' Unione Sovietica e gli americani», ha detto al New York Times Hope M. Harrison, docente di storia alla George Washington University. Sulle grandi responsabilità dell' uomo che aveva dichiarato «non c' è nessuna intenzione di costruire un Muro», si è soffermato recentemente anche Klaus-Dietmar Henke, che insegna Storia contemporanea all' Università di Dresda. Per la co-presidente della Linke (il partito di estrema sinistra nato dalle ceneri del post-comunismo tedesco orientale), Gesine Lötsch, la nascita del Muro è stata un risultato dell' invasione tedesca dell' Urss. Le parole della Lötsch non sono passate inosservate. Non c' è ricorrenza senza polemiche, anche perché, contrariamente a quanto si potrebbe credere, la parola Streit (litigio) ricorre molto spesso nelle cronache della politica tedesca. C' è da dire che il clima era già nervoso e che aveva iniziato per primo uno dei leader dei cristiano-sociali, Alexander Dobrindt, secondo cui la Linke andrebbe messa «sotto osservazione» dal punto di vista costituzionale, perché vuole sovvertire il sistema e creare una società socialista. Il giustificazionismo storico della co-presidente della Linke e stato messo sotto accusa dallo stesso Dobrindt, dal segretario generale cristiano-democratico, Hermann Gröhe, dal leader liberale e ministro dell' Economia nel governo Merkel, Philipp Rösler. Il segretario generale della Fdp, Christian Lindner ha definito la Lötsch «l' ultimo portavoce governativo della Ddr». La posta in gioco è politica, perché la Linke governa con i socialdemocratici sia in Brandeburgo che a Berlino, dove si vota il 18 settembre. Non è un caso che Gröhe abbia attaccato direttamente la Spd osservando che chi è amico della Stasi non è un partner di coalizione affidabile. I Verdi hanno preso le distanze dalla polemica, nella quale è intervenuto anche il cantautore Wolf Biermann, che scelse di trasferirsi nella Ddr e poi ruppe con le autorità comuniste, accusando i dirigenti della Linke (che non la pensano però tutti come la Lötsch) di essere gli eredi della nomenklatura tedesco orientale e dello stalinismo. Ma che la ferita sia aperta e che tutto questo non sia solo una scaramuccia pre-elettorale lo dimostra il fatto che tanto il presidente Wulff in un' intervista alla Welt («molti si erano abituati al Muro e lo minimizzarono: si facevano piuttosto manifestazioni di solidarietà per i sandinisti del Nicaragua») quanto, soprattutto, il sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit nel discorso ufficiale («è spaventoso che ci siano persone per le quali il partito unico tedesco orientale aveva buoni motivi per rinchiudere i propri cittadini») siano entrati, anche se indirettamente, nella mischia. Al di là delle polemiche, Berlino ha da ieri una nuova, grande sezione del memoriale del Muro. È stata ricostruita la «striscia della morte» che rendeva impossibile ogni fuga all' aperto, sono state fatte riaffiorare le tracce dei tunnel scavati per tentare di scappare, è stata esposta la croce della chiesa i cui resti furono distrutti perché ostacolava il controllo del confine. «Un luogo di apprendimento, ricordo e commemorazione», ha detto il presidente della fondazione del Muro, Axel Klausmeier. L' esatto contrario del mercato della nostalgia che si è creato con gli anni nei dintorni del Checkpoint Charlie, con i venditori di cianfrusaglie, i soldati in divisa per le foto dei turisti, le Trabant con cui fare un giro panoramico: una sorta di Disneyland che sono in molti, da tempo, a voler tentare di rendere meno kitsch. Cosa era il Muro lo si capisce molto meglio alla mostra Aus andererer Sicht, guardando i volti (gli occhi coperti da rettangoli grigi) degli agenti tedesco orientali che hanno avuto onorificenze e medaglie per essersi distinti nello sventare i tentativi di passare dall' altra parte dei loro compatrioti. Oppure bisogna andare al museo della Stasi, un grande palazzo squadrato rimasto come un tempo. Nell' atrio il furgone degli interrogatori, nelle bacheche gli strumenti della sorveglianza o dell' offesa: le macchine fotografiche nei bottoni, le ricetrasmittenti nelle spille delle cravatte, i mitra smontati nelle valigette ventiquattr' ore. Ma il Muro può essere dappertutto, anche quando è invisibile. Può essere perfino, sullo sfondo, come la materializzazione di un incubo, tra i violenti colori dei quadri, esposti in questi giorni alla Berlinische Galerie , di un artista «occidentale» come Rainer Fetting. Perché è stato un incubo durato troppo a lungo.
1961 Il 13 agosto le autorità della Germania Est, per fermare l' afflusso di profughi verso il settore occidentale di Berlino, avviano la costruzione del Muro che spezza in due la città
1989 Il 9 novembre la crisi di regime induce il governo della Germania Est a legalizzare il transito dei cittadini in Occidente.
Gli Usa apprezzarono una Ddr blindata: quando il Muro di Berlino venne costruito, la protesta del governo americano fu aspra. Due anni dopo, l' allora presidente Usa John Kennedy avrebbe personalmente portato la sua solidarietà alla città spezzata in due. Ma la diplomazia ragionava in modo diverso, come emerge dai documenti segreti declassificati che il National Security Archive, ente legato alla George Washington University, ha appena pubblicato sul suo sito. Colpisce in particolare il dispaccio (datato 24 luglio 1961), in cui l' ambasciatore a Mosca, Llewellyn Thompson, osservava che gli Stati Uniti e la Germania Ovest avrebbero ricavato «vantaggi di lungo termine» se i potenziali profughi tedeschi fossero rimasti a Est, perché così si sarebbe allentata la tensione su Berlino, che costituiva il punto più delicato di crisi tra Occidente e blocco sovietico. Allo stesso modo il segretario di Stato Dean Rusk, in agosto, disse in sede riservata che la mossa compiuta da Krusciov e Ulbricht non costituiva una minaccia agli interessi vitali dell' Occidente. In fondo il Muro avrebbe stabilizzato la Germania comunista, osservava, e reso quindi i sovietici meno aggressivi sulla questione di Berlino.
Paolo Lepri
Thomas Jefferson
L' inizio della fine, ha titolato la Berliner Zeitung , in prima pagina, vicino alla foto di un anziano operaio che, controllato a vista da un giovane militare della Ddr, mette la calce su alcuni grandi cubi di pietra nella Bernanuerstrasse, dove oggi sorge il Memoriale che diventerà uno dei nuovi luoghi della memoria in questa città che non vuole dimenticare il suo passato. Forse non c' era frase migliore per ricordare i 50 anni della costruzione del Muro di Berlino: un anniversario che la Germania ha celebrato ieri con grande determinazione e non senza qualche polemica sul «giustificazionismo» dell' estrema sinistra. Fu l' inizio della fine, per un regime e per un sistema. Certo, ci vollero 28 anni, tante vittime (sono 136 i morti «ufficiali» tra coloro che tentarono di fuggire, ma secondo molti ricercatori questa cifra può arrivare anche a 700 persone) e sofferenze sterminate prima di vedere veramente cadere (anzi «rovesciare» come ha detto ieri il presidente tedesco Christian Wulff) questo emblema drammatico della follia e dell' abbaglio ideologico. La mattina del 13 agosto 1961 Berlino si svegliò divisa. Famiglie separate, case spezzate a metà, vite sradicate. Perfino il centravanti dell' Hertha, Klaus Taube, che abitava ad Est, non riuscì a raggiungere i suoi compagni di squadra che dovevano giocare. Nessuno si aspettava, nemmeno Willy Brandt, allora sindaco della città, che il leader della Germania comunista Walter Ulbricht avrebbe deciso di dare il via all' «Operazione rosa» che costò alla Ddr, nei successivi 28 anni, 400 milioni di marchi. Certo, l' uomo che sarebbe diventato il grande cancelliere della Ostpolitik proprio il giorno prima di quel 13 agosto aveva espresso il timore che la cortina di ferro sarebbe stata «cementata». Quella di Brandt non era un' allusione a qualcosa che si sapeva, ha detto ieri l' ex ministro Egon Bahr (89 anni, una delle teste più lucide, da sempre, della Spd), ma solo la sensazione che il flusso di profughi verso Ovest non avrebbe potuto continuare a lungo. Così come chi ha vissuto quei giorni pensa che probabilmente non arrivò sui tavoli giusti il dispaccio 42888 dell' 11 agosto 1961 dei servizi segreti della Germania Ovest che conteneva, come ha rivelato nei giorni scorsi la Süddeutsche Zeitung , la frase «chiusura del confine tra i settori». In quel dispaccio, però, non c' era sicuramente scritto che il Muro sarebbe stato lungo 167,8 chilometri e alto 3,60 metri, che avrebbe avuto 302 torrette di sorveglianza e che 11.500 soldati e 992 cani lo avrebbero controllato ventiquattro ore su ventiquattro. Di chi fu la colpa? «Tra gli storici e gli esperti tedeschi si dà ormai per acquisito che fu Ulbricht a voler chiudere il confine e non i sovietici. Ma la maggioranza dei cittadini tedeschi attribuisce invece la responsabilità a Mosca, alla guerra fredda e al conflitto tra l' Unione Sovietica e gli americani», ha detto al New York Times Hope M. Harrison, docente di storia alla George Washington University. Sulle grandi responsabilità dell' uomo che aveva dichiarato «non c' è nessuna intenzione di costruire un Muro», si è soffermato recentemente anche Klaus-Dietmar Henke, che insegna Storia contemporanea all' Università di Dresda. Per la co-presidente della Linke (il partito di estrema sinistra nato dalle ceneri del post-comunismo tedesco orientale), Gesine Lötsch, la nascita del Muro è stata un risultato dell' invasione tedesca dell' Urss. Le parole della Lötsch non sono passate inosservate. Non c' è ricorrenza senza polemiche, anche perché, contrariamente a quanto si potrebbe credere, la parola Streit (litigio) ricorre molto spesso nelle cronache della politica tedesca. C' è da dire che il clima era già nervoso e che aveva iniziato per primo uno dei leader dei cristiano-sociali, Alexander Dobrindt, secondo cui la Linke andrebbe messa «sotto osservazione» dal punto di vista costituzionale, perché vuole sovvertire il sistema e creare una società socialista. Il giustificazionismo storico della co-presidente della Linke e stato messo sotto accusa dallo stesso Dobrindt, dal segretario generale cristiano-democratico, Hermann Gröhe, dal leader liberale e ministro dell' Economia nel governo Merkel, Philipp Rösler. Il segretario generale della Fdp, Christian Lindner ha definito la Lötsch «l' ultimo portavoce governativo della Ddr». La posta in gioco è politica, perché la Linke governa con i socialdemocratici sia in Brandeburgo che a Berlino, dove si vota il 18 settembre. Non è un caso che Gröhe abbia attaccato direttamente la Spd osservando che chi è amico della Stasi non è un partner di coalizione affidabile. I Verdi hanno preso le distanze dalla polemica, nella quale è intervenuto anche il cantautore Wolf Biermann, che scelse di trasferirsi nella Ddr e poi ruppe con le autorità comuniste, accusando i dirigenti della Linke (che non la pensano però tutti come la Lötsch) di essere gli eredi della nomenklatura tedesco orientale e dello stalinismo. Ma che la ferita sia aperta e che tutto questo non sia solo una scaramuccia pre-elettorale lo dimostra il fatto che tanto il presidente Wulff in un' intervista alla Welt («molti si erano abituati al Muro e lo minimizzarono: si facevano piuttosto manifestazioni di solidarietà per i sandinisti del Nicaragua») quanto, soprattutto, il sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit nel discorso ufficiale («è spaventoso che ci siano persone per le quali il partito unico tedesco orientale aveva buoni motivi per rinchiudere i propri cittadini») siano entrati, anche se indirettamente, nella mischia. Al di là delle polemiche, Berlino ha da ieri una nuova, grande sezione del memoriale del Muro. È stata ricostruita la «striscia della morte» che rendeva impossibile ogni fuga all' aperto, sono state fatte riaffiorare le tracce dei tunnel scavati per tentare di scappare, è stata esposta la croce della chiesa i cui resti furono distrutti perché ostacolava il controllo del confine. «Un luogo di apprendimento, ricordo e commemorazione», ha detto il presidente della fondazione del Muro, Axel Klausmeier. L' esatto contrario del mercato della nostalgia che si è creato con gli anni nei dintorni del Checkpoint Charlie, con i venditori di cianfrusaglie, i soldati in divisa per le foto dei turisti, le Trabant con cui fare un giro panoramico: una sorta di Disneyland che sono in molti, da tempo, a voler tentare di rendere meno kitsch. Cosa era il Muro lo si capisce molto meglio alla mostra Aus andererer Sicht, guardando i volti (gli occhi coperti da rettangoli grigi) degli agenti tedesco orientali che hanno avuto onorificenze e medaglie per essersi distinti nello sventare i tentativi di passare dall' altra parte dei loro compatrioti. Oppure bisogna andare al museo della Stasi, un grande palazzo squadrato rimasto come un tempo. Nell' atrio il furgone degli interrogatori, nelle bacheche gli strumenti della sorveglianza o dell' offesa: le macchine fotografiche nei bottoni, le ricetrasmittenti nelle spille delle cravatte, i mitra smontati nelle valigette ventiquattr' ore. Ma il Muro può essere dappertutto, anche quando è invisibile. Può essere perfino, sullo sfondo, come la materializzazione di un incubo, tra i violenti colori dei quadri, esposti in questi giorni alla Berlinische Galerie , di un artista «occidentale» come Rainer Fetting. Perché è stato un incubo durato troppo a lungo.
1961 Il 13 agosto le autorità della Germania Est, per fermare l' afflusso di profughi verso il settore occidentale di Berlino, avviano la costruzione del Muro che spezza in due la città
1989 Il 9 novembre la crisi di regime induce il governo della Germania Est a legalizzare il transito dei cittadini in Occidente.
Gli Usa apprezzarono una Ddr blindata: quando il Muro di Berlino venne costruito, la protesta del governo americano fu aspra. Due anni dopo, l' allora presidente Usa John Kennedy avrebbe personalmente portato la sua solidarietà alla città spezzata in due. Ma la diplomazia ragionava in modo diverso, come emerge dai documenti segreti declassificati che il National Security Archive, ente legato alla George Washington University, ha appena pubblicato sul suo sito. Colpisce in particolare il dispaccio (datato 24 luglio 1961), in cui l' ambasciatore a Mosca, Llewellyn Thompson, osservava che gli Stati Uniti e la Germania Ovest avrebbero ricavato «vantaggi di lungo termine» se i potenziali profughi tedeschi fossero rimasti a Est, perché così si sarebbe allentata la tensione su Berlino, che costituiva il punto più delicato di crisi tra Occidente e blocco sovietico. Allo stesso modo il segretario di Stato Dean Rusk, in agosto, disse in sede riservata che la mossa compiuta da Krusciov e Ulbricht non costituiva una minaccia agli interessi vitali dell' Occidente. In fondo il Muro avrebbe stabilizzato la Germania comunista, osservava, e reso quindi i sovietici meno aggressivi sulla questione di Berlino.
Paolo Lepri
sabato 20 agosto 2011
in ultima analisi la letteratura americana
il giovane holden non è x niente in gamba, anzi è una stronzata pazzesca e tutto il resto comprese le segale.
hemingway non era altro che un turista che viveva squallide avventure da tour operator per poi raccontarle al circoletto di quella lappafiche giudea della G. Stein.
hemingway non era altro che un turista che viveva squallide avventure da tour operator per poi raccontarle al circoletto di quella lappafiche giudea della G. Stein.
venerdì 19 agosto 2011
[le medie guide] grand tour nella mitteleuropa per andare a sentire i motorhead
Essendo che un mio amico aveva fatto l'erasmus a praga e vi poteva risiedere fino a fine agosto, si è ben pensato di andare a visitare la città alloggiando gratis. Essendo anche che il 10 agosto suonavano i motorhead allo sziget di budapest, si è ben pensato di allungare il viaggio, inserendo delle tappe intermedie così, per temporeggiare.
Niente interrail, che è cosa da milionari, e optiamo per aeroplani + corriere, davvero economiche.
La casa del mio amico mi ricorda la mia in quanto a igiene, solo che ci vivono in sette. sono quasi tutti cechi, e in quanto tali poverelli che non si possono permettere la singola. noi sì, ma siamo in quattro, e meno male c'è la stanza degli ospiti, che però è un armadio degli ospiti, e io piuttosto che condividerlo con un altra persona mi accomodo qualche giorno sul pavimento.
avevo già visto praga in passato, era inverno ed era molto più noir, e infatti avevo fatto le foto in bianco e noir; ma comunque anche d'estate è una città che mi piace molto, forse più come veduta generale, camminando per le strade, che per i luoghi d'interesse veri e propri: piazza venceslao in realtà è una strada, il castello non è un vero castello (come invece lo è quello di brescia) bensì un palazzo su una collina, di chiese gotiche ne ho fatto una scorpacciata l'anno scorso in normandia. nonostante ciò è una delle città più belle che abbia mai veduto, e si capisce che fino a un paio di secoli fa o anche meno era una delle città più importanti al mondo.
tra le altre cose che ho visto ci sono un paio di cimiteri, il museo senza pretese della tecnica, un monumento/mausoleo sovietico in cui ha fatto la prima comparsa il mio nemico della vacanza: l'impalcatura.
nel cimitero di praga reso celebre da umberto eco stavolta non sono entrato: il prezzo è esorbitante e non sono stato svelto come i miei amici a entrare dall'uscita eludendo la sorveglianza. comunque me lo ricordo abbastanza bene: è composto da un'infinità di tombe ammassate in uno spazio abbastanza ridotto, con le lapidi illeggibili che si sovrappongono. molto caratteristico, ma vuoi mettere d'inverno? il tour delle sinagoghe di cazzo costava un altro patrimonio e allora siamo andati a pranzo.
il pranzo costava di meno, perchè se non hai grosse pretese e vai a mangiare in un pub o anche in un ristorantino fuori dagli itinerari turistici te la cavi con una manciata di euro (che avrai avuto l'accortezza di cambiare in corone). la birra poi non parliamone: quando mangi fuori costa meno dell'acqua minerale, e forse per questo motivo i cechi sono i maggiori consumatori al mondo di birra. trovi praticamente ovunque la gambrinus, lager molto economica ma comunque discreta, e la pilsner urquell, che costa leggermente di più ed è un po' più corposa.
l'economicità della birra (una media di 1,5 litri al giorno, per oltre due settimane) e del mangiare - anche nelle tappe successive - mi ha portato a mettere su un ventre da pater familias, che adesso cercherò di buttare giù fino a quando non avrò una familia da amministrare.
la città è attraversata da un fiume, la moldava, è stata anche la colonna sonora della nostra vacanza, pur essendo le altre città percorse dal danubio.
un'altra caratteristica della repubblica ceca è che un sacco di cose non sono illegali, o perlomeno non sono perseguite: mi è capitato di vedere prostitute mercanteggiare tranquillamente col cliente in piazza venceslao, o che venissero a propormi la droga al tavolo mentre bevevo una birra in un locale. secondo quanto mi diceva il mio amico dell'erasmus, se dici a qualcuno che ti fai la canne quelli tirano un sospiro di sollievo, perchè con una certa frequenza i giovani si fanno di molto peggio, e tutta la generazione precedente è formata da alcolizzati.
a praga c'è pieno di giovini, quindi proliferano i locali che spesso fanno cagare i morti, come le grandi discoteche. dopo due sere che provavamo a trovare un locale con la musica industriale (si chiamava bunker ed era sottoterra, forse per quello si faceva fatica a trovarlo (o forse perchè la nostra guida era datata e il locale non esisteva più)) il nostro contatto ci ha portati in una di queste maxidiscoteche. la nostra era proprio a fianco a quella dove stavano entrando tutti i giovani di praga, un'esperienza che non ti dico. ci sono comunque posti interessanti, a saperli trovare.
da praga ci siamo spostati a vienna, ed io ho potuto finalmente dormire in un letto. alloggiavamo all'ostello meininger, che per meno di venti euro a notte ci ha fornito alloggio in camerata da otto, dotata di doccia e latrina (separati) all'interno della stanza. e una cucina per chi avesse voluto (noi) risparmiare a cena. la cucina ahimè era un po' infame, con due piastre elettriche da campo e pochi posti a sedere: si cucinava a turno e solo roba semplice.
vienna mi è piaciuta molto, nobile ed elegante, anche qui era un piacere girare per le strade (ne parlavo nella mia descrizione di londra: potrei fare interi viaggi senza entrare in un edificio).
vienna è una città di arte e anche un animo di legno come il mio è costretto a piegarsi alla sensibilità artistica. per cui ho visitato il/la secession, che vale la pena giusto per il fregio di kilmt e per l'edificio in sè, mentre le mostre temporanee ti fanno solo venir voglia di fare come quel prete di massa che ha disfatto la chiesa a martellate prima di essere portato via in ambulanza. e ho visitato anche il belvedere, la suggestiva residenza asburgica dove sissi ci faceva non so cosa (potevo fiutare tutta la noia settecentesca degli asburgo, mica come versailles o haiti) e ora ci tengono dei quadri: oltre a quelle cazzo di stanze zeppe di uomini che indicano o prati fioriti c'erano anche le opere di quelle correnti di fine ottocento primi novecento che mi hanno appassionato per tutta la visita, anche se ora mi ricordo solo klimt e munch. è lunga la strada per l'elevazione.
da vedere assolutamente quando si è a vienna è il museo di anatomopatologia nella NARRENTURM, la torre dei pazzi all'interno del campus universitario. vi sono raccolti modelli di deformità e deformità vere e proprie, sia in barattolo che secche, assieme a ricostruzioni di ambulatori antichi, libri medici d'epoca e spiegazioni ahimè perlopiù in tedesco. era vietato fare fotografie ma io le ho fatte lo stesso, dicendo italiano berlusconi. ci è piaciuta così tanto che abbiamo addirittura pagato quattro euro per una visita guidata.
mentre la guida veniva pronta abbiamo fatto merenda nel campus ed ho avuto l'occasione per degustare una delle bevande che vanno per la maggiore tra i giovani austriaci: la birra col succo di frutta. dopo due sorsi mi sono detto "non è così male", e poi l'ho vuotata nel prato prima di riciclare la bottiglia.
l'attesa e i soldi per la guida comunque sono valsi bene: un simpatico studente di medicina con tanto di camice ci ha portati al piano di sopra e ha spiegato per un'ora piena le varie nefandezze raccolte lì dentro, oltre che alla storia della torre: costruita per volere di cecco beppe come lo chiama mio nonno, è a pianta ottagonale ed ha un numero di piani e di stanze che non ricordo, ma importanti per questioni alchemiche. serviva da manicomio, e pare che l'asburgo ci passasse giorni e giorni e giorni, chissà perchè.
un'altra cosa a cui buttare un occhio a vienna sono le flakturm, le massicce torri dell'antiaerea che sorgono in punti insoliti di vienna, aree residenziali e giardini. in una ci fanno delle mostre d'arte ma io avevo già avuto la mia dose annuale ed ho visto quelle da fuori.
per gli amanti dei cimiteri c'è il cimitero monumentale con le tombe dei vips: beethoven, tutti gli strauss, brahms, schubert, boltzmann che da buon sfigo si è fatto incidere la sua costante, un po' di architetti eccetera.
vita notturna non ne abbiamo fatta molta, anche perchè la nostra permanenza era nei primi giorni della settimana. pensavo fosse una città molto più costosa, e invece penso non si spenda più che in italia. anche i trasporti non costavano molto (meno che a praga!), e con tredici euro abbiamo fatto l'abbonamento settimanale a tutti i mezzi.
a bratislava non c'è circa un cazzo. il centro storico è più piccolo di quello di brescia, c'è un castello fasullo (ho visto condomini più belli) e quattro chiese di cazzo. ogni due case normali ce n'è una in rovina. nonostante ciò può essere un piacevole diversivo, a sapere cosa ti aspetta e ad avere un giorno che avanza. abbiamo girato a piedi, tranne che per andare in collina al notevole monumento dell'armata rossa che abbiamo preso un pulmino.
è comunque una città piena di turisti, perchè tanto poco c'è di giorno, tanta vita c'è di sera, pieno di localini che pare di stare a mykonos, ma spendendo di meno e senza sasà.
la seconda notte siamo andati in un club molto underground, che era un tunnel umido dentro la collina del castello, a ballare la drum n bass con il nostro amico cristian, un cileno di 51 anni che non ha mai lavorato in vita sua, ma si è impegnato nel visitare il mondo seminando figli e mantenendoli con il danaro datogli chissà perchè dalla famiglia in cile. all'inizio pensavo fosse un po' un ciarlatano, e anche che si fosse accollato a noi per rapinarci, ma quando si è scatenato in pista ballando come celentano sotto speed e diventando la star del locale ho capito che il suo cuore era sincero e mi è dispiaciuto dargli l'addio (noi siamo tornati in ostello, lui è rimasto a ballare tutta la notte, noncurante dei trentanni che ci separavano).
abbiamo alloggiato all'Hostel Blues, camerate stavolta da dieci (in cui la prima notte mi sono indignato perchè eravamo tutti italiani o ispanici nella camera "barcellona" e pensavo adottassero la segregazione razziale, poi invece sono arrivati gli americani e mi sono calmato) e una cucina più umana, sempre a prezzi modici.
e alla fine siamo arrivati a budapest. anche budapest mi è piaciuta un sacco. molto diversa dalle altre, essendo che fino a duecento anni fa era composta da villaggi magiari in cui vivevano parenti di attila. poi a un certo punto è esplosa la civiltà, ed ecco dappertutto sorgere elegantissimi palazzi, ma proprio elegantissimi. certo, se ti piacciono le antichità e le chiese gotiche non andare a budapest, che non ci trovi nulla. anche le cose che sembrano più vecchie, la basilica, il palazzo del parlamento, il castello, sono tutte risalenti a poco tempo fa, costruite spesso copiando non uno, ma più stili del passato.
a budapest credo di aver battuto il mio record di spesa per una visita culturale, indovina un po' dove: alla grande sinagoga. per il resto ho adottato una rigida condotta: oltre alla basilica in cui sono entrato barando sull'offerta minima ho visto il castello col palazzo reale (da fuori), il parlamento da fuori (che in realtà è gratis per i cittadini dell'UE, ma bisogna muoversi per tempo coi biglietti), e il ponte delle catene da sopra che tanto è gratis.
ci sono delle belle aree verdi, una a nord con un monumento alla rivoluzione, su cui i cinesi arricchiti e bastardi ci camminano e fanno festa, che se lo fanno al loro paese li fucilano e poi gli mandano la ricevuta del proiettile, un palazzotto costruito in TUTTI gli stili, e il laghetto dove puoi andare in canoa. ottima per le gite in stile "domenica pomeriggio" anche l'isola margherita sul danubio, con su i giardini e il parco acquatico.
anche qui consiglio di farsi l'abbonamento dei mezzi: con la tessera degli studenti (che a parma non esiste: gli ho dato con sicumera la tesser della biblioteca) abbiamo pagato l'abbonamento MENSILE meno del settimanale, comunque sempre sui tredici euro.
anche qui abbiamo speso poco, sempre con la tecnica del cenare in casa (all'ostello Corvin Point, molto piacevole, per la prima volta abbiamo trovato una VERA cucina), ma anche fuori puoi cenare stando sui dieci euro, a volte più a volte meno.
e finalmente siamo andati allo sziget, il festival che dura pressapoco una settimana, sopra ad un isoletta nel danubio. sei o sette palchi attivi dalle tre e mezza nel pomeriggio e musica fino alle quattro del mattino, campeggianti in ogni spiazzo erboso lasciato libero, mille baracchini che servono mangiare di ogni tipo e birra e unicum (il tipico amaro ungherese, così tipico che costa meno all'esselunga che al duty free). lì abbiamo incontrato una mia amica e altre signorine italiane, e conosciuto qualche giovane, poi hanno suonato i motorhead, ho sperimentato le alte pressioni e umidità delle prime file, sono arretrato spontaneamente tra la gente civile, ho cantato e scosso la testa, alla fine mi sono ricongiunto agli altri sempre rockeggiando. la serata è proseguita, poi qualcuno a goduto le gioie dell'amore libero, altri perlomeno le gioie del letto caldo dell'ostello, io ho goduto dell'ammirare il cielo stellato tutta la notte, tremando sul prato umido e malamente coperto dal sacco a pelo che la mia amica è riuscita a recuperare (facevamo così pena che verso l'alba sono tornati i proprietari della tenda vicino a cui eravamo accasciati e ci hanno gettato addosso una giacca). ma sono queste le cose che racconterò ai miei nipoti (o ai bambini che fermerò al cancello della scuola elementare nel caso non dovessi avere nipoti).
il giorno dopo l'abbiamo passato a riprendere le forze all'isola margherita, non prima di essere stato mezzora sotto la doccia bollente, e a finire i fiorini che il giorno dopo si ripartiva verso la terra della pizza (l'italia) assieme alla squadra giovanile del milan.
pacciani
Niente interrail, che è cosa da milionari, e optiamo per aeroplani + corriere, davvero economiche.
La casa del mio amico mi ricorda la mia in quanto a igiene, solo che ci vivono in sette. sono quasi tutti cechi, e in quanto tali poverelli che non si possono permettere la singola. noi sì, ma siamo in quattro, e meno male c'è la stanza degli ospiti, che però è un armadio degli ospiti, e io piuttosto che condividerlo con un altra persona mi accomodo qualche giorno sul pavimento.
avevo già visto praga in passato, era inverno ed era molto più noir, e infatti avevo fatto le foto in bianco e noir; ma comunque anche d'estate è una città che mi piace molto, forse più come veduta generale, camminando per le strade, che per i luoghi d'interesse veri e propri: piazza venceslao in realtà è una strada, il castello non è un vero castello (come invece lo è quello di brescia) bensì un palazzo su una collina, di chiese gotiche ne ho fatto una scorpacciata l'anno scorso in normandia. nonostante ciò è una delle città più belle che abbia mai veduto, e si capisce che fino a un paio di secoli fa o anche meno era una delle città più importanti al mondo.
tra le altre cose che ho visto ci sono un paio di cimiteri, il museo senza pretese della tecnica, un monumento/mausoleo sovietico in cui ha fatto la prima comparsa il mio nemico della vacanza: l'impalcatura.
nel cimitero di praga reso celebre da umberto eco stavolta non sono entrato: il prezzo è esorbitante e non sono stato svelto come i miei amici a entrare dall'uscita eludendo la sorveglianza. comunque me lo ricordo abbastanza bene: è composto da un'infinità di tombe ammassate in uno spazio abbastanza ridotto, con le lapidi illeggibili che si sovrappongono. molto caratteristico, ma vuoi mettere d'inverno? il tour delle sinagoghe di cazzo costava un altro patrimonio e allora siamo andati a pranzo.
il pranzo costava di meno, perchè se non hai grosse pretese e vai a mangiare in un pub o anche in un ristorantino fuori dagli itinerari turistici te la cavi con una manciata di euro (che avrai avuto l'accortezza di cambiare in corone). la birra poi non parliamone: quando mangi fuori costa meno dell'acqua minerale, e forse per questo motivo i cechi sono i maggiori consumatori al mondo di birra. trovi praticamente ovunque la gambrinus, lager molto economica ma comunque discreta, e la pilsner urquell, che costa leggermente di più ed è un po' più corposa.
l'economicità della birra (una media di 1,5 litri al giorno, per oltre due settimane) e del mangiare - anche nelle tappe successive - mi ha portato a mettere su un ventre da pater familias, che adesso cercherò di buttare giù fino a quando non avrò una familia da amministrare.
la città è attraversata da un fiume, la moldava, è stata anche la colonna sonora della nostra vacanza, pur essendo le altre città percorse dal danubio.
un'altra caratteristica della repubblica ceca è che un sacco di cose non sono illegali, o perlomeno non sono perseguite: mi è capitato di vedere prostitute mercanteggiare tranquillamente col cliente in piazza venceslao, o che venissero a propormi la droga al tavolo mentre bevevo una birra in un locale. secondo quanto mi diceva il mio amico dell'erasmus, se dici a qualcuno che ti fai la canne quelli tirano un sospiro di sollievo, perchè con una certa frequenza i giovani si fanno di molto peggio, e tutta la generazione precedente è formata da alcolizzati.
a praga c'è pieno di giovini, quindi proliferano i locali che spesso fanno cagare i morti, come le grandi discoteche. dopo due sere che provavamo a trovare un locale con la musica industriale (si chiamava bunker ed era sottoterra, forse per quello si faceva fatica a trovarlo (o forse perchè la nostra guida era datata e il locale non esisteva più)) il nostro contatto ci ha portati in una di queste maxidiscoteche. la nostra era proprio a fianco a quella dove stavano entrando tutti i giovani di praga, un'esperienza che non ti dico. ci sono comunque posti interessanti, a saperli trovare.
da praga ci siamo spostati a vienna, ed io ho potuto finalmente dormire in un letto. alloggiavamo all'ostello meininger, che per meno di venti euro a notte ci ha fornito alloggio in camerata da otto, dotata di doccia e latrina (separati) all'interno della stanza. e una cucina per chi avesse voluto (noi) risparmiare a cena. la cucina ahimè era un po' infame, con due piastre elettriche da campo e pochi posti a sedere: si cucinava a turno e solo roba semplice.
vienna mi è piaciuta molto, nobile ed elegante, anche qui era un piacere girare per le strade (ne parlavo nella mia descrizione di londra: potrei fare interi viaggi senza entrare in un edificio).
vienna è una città di arte e anche un animo di legno come il mio è costretto a piegarsi alla sensibilità artistica. per cui ho visitato il/la secession, che vale la pena giusto per il fregio di kilmt e per l'edificio in sè, mentre le mostre temporanee ti fanno solo venir voglia di fare come quel prete di massa che ha disfatto la chiesa a martellate prima di essere portato via in ambulanza. e ho visitato anche il belvedere, la suggestiva residenza asburgica dove sissi ci faceva non so cosa (potevo fiutare tutta la noia settecentesca degli asburgo, mica come versailles o haiti) e ora ci tengono dei quadri: oltre a quelle cazzo di stanze zeppe di uomini che indicano o prati fioriti c'erano anche le opere di quelle correnti di fine ottocento primi novecento che mi hanno appassionato per tutta la visita, anche se ora mi ricordo solo klimt e munch. è lunga la strada per l'elevazione.
da vedere assolutamente quando si è a vienna è il museo di anatomopatologia nella NARRENTURM, la torre dei pazzi all'interno del campus universitario. vi sono raccolti modelli di deformità e deformità vere e proprie, sia in barattolo che secche, assieme a ricostruzioni di ambulatori antichi, libri medici d'epoca e spiegazioni ahimè perlopiù in tedesco. era vietato fare fotografie ma io le ho fatte lo stesso, dicendo italiano berlusconi. ci è piaciuta così tanto che abbiamo addirittura pagato quattro euro per una visita guidata.
mentre la guida veniva pronta abbiamo fatto merenda nel campus ed ho avuto l'occasione per degustare una delle bevande che vanno per la maggiore tra i giovani austriaci: la birra col succo di frutta. dopo due sorsi mi sono detto "non è così male", e poi l'ho vuotata nel prato prima di riciclare la bottiglia.
l'attesa e i soldi per la guida comunque sono valsi bene: un simpatico studente di medicina con tanto di camice ci ha portati al piano di sopra e ha spiegato per un'ora piena le varie nefandezze raccolte lì dentro, oltre che alla storia della torre: costruita per volere di cecco beppe come lo chiama mio nonno, è a pianta ottagonale ed ha un numero di piani e di stanze che non ricordo, ma importanti per questioni alchemiche. serviva da manicomio, e pare che l'asburgo ci passasse giorni e giorni e giorni, chissà perchè.
un'altra cosa a cui buttare un occhio a vienna sono le flakturm, le massicce torri dell'antiaerea che sorgono in punti insoliti di vienna, aree residenziali e giardini. in una ci fanno delle mostre d'arte ma io avevo già avuto la mia dose annuale ed ho visto quelle da fuori.
per gli amanti dei cimiteri c'è il cimitero monumentale con le tombe dei vips: beethoven, tutti gli strauss, brahms, schubert, boltzmann che da buon sfigo si è fatto incidere la sua costante, un po' di architetti eccetera.
vita notturna non ne abbiamo fatta molta, anche perchè la nostra permanenza era nei primi giorni della settimana. pensavo fosse una città molto più costosa, e invece penso non si spenda più che in italia. anche i trasporti non costavano molto (meno che a praga!), e con tredici euro abbiamo fatto l'abbonamento settimanale a tutti i mezzi.
a bratislava non c'è circa un cazzo. il centro storico è più piccolo di quello di brescia, c'è un castello fasullo (ho visto condomini più belli) e quattro chiese di cazzo. ogni due case normali ce n'è una in rovina. nonostante ciò può essere un piacevole diversivo, a sapere cosa ti aspetta e ad avere un giorno che avanza. abbiamo girato a piedi, tranne che per andare in collina al notevole monumento dell'armata rossa che abbiamo preso un pulmino.
è comunque una città piena di turisti, perchè tanto poco c'è di giorno, tanta vita c'è di sera, pieno di localini che pare di stare a mykonos, ma spendendo di meno e senza sasà.
la seconda notte siamo andati in un club molto underground, che era un tunnel umido dentro la collina del castello, a ballare la drum n bass con il nostro amico cristian, un cileno di 51 anni che non ha mai lavorato in vita sua, ma si è impegnato nel visitare il mondo seminando figli e mantenendoli con il danaro datogli chissà perchè dalla famiglia in cile. all'inizio pensavo fosse un po' un ciarlatano, e anche che si fosse accollato a noi per rapinarci, ma quando si è scatenato in pista ballando come celentano sotto speed e diventando la star del locale ho capito che il suo cuore era sincero e mi è dispiaciuto dargli l'addio (noi siamo tornati in ostello, lui è rimasto a ballare tutta la notte, noncurante dei trentanni che ci separavano).
abbiamo alloggiato all'Hostel Blues, camerate stavolta da dieci (in cui la prima notte mi sono indignato perchè eravamo tutti italiani o ispanici nella camera "barcellona" e pensavo adottassero la segregazione razziale, poi invece sono arrivati gli americani e mi sono calmato) e una cucina più umana, sempre a prezzi modici.
e alla fine siamo arrivati a budapest. anche budapest mi è piaciuta un sacco. molto diversa dalle altre, essendo che fino a duecento anni fa era composta da villaggi magiari in cui vivevano parenti di attila. poi a un certo punto è esplosa la civiltà, ed ecco dappertutto sorgere elegantissimi palazzi, ma proprio elegantissimi. certo, se ti piacciono le antichità e le chiese gotiche non andare a budapest, che non ci trovi nulla. anche le cose che sembrano più vecchie, la basilica, il palazzo del parlamento, il castello, sono tutte risalenti a poco tempo fa, costruite spesso copiando non uno, ma più stili del passato.
a budapest credo di aver battuto il mio record di spesa per una visita culturale, indovina un po' dove: alla grande sinagoga. per il resto ho adottato una rigida condotta: oltre alla basilica in cui sono entrato barando sull'offerta minima ho visto il castello col palazzo reale (da fuori), il parlamento da fuori (che in realtà è gratis per i cittadini dell'UE, ma bisogna muoversi per tempo coi biglietti), e il ponte delle catene da sopra che tanto è gratis.
ci sono delle belle aree verdi, una a nord con un monumento alla rivoluzione, su cui i cinesi arricchiti e bastardi ci camminano e fanno festa, che se lo fanno al loro paese li fucilano e poi gli mandano la ricevuta del proiettile, un palazzotto costruito in TUTTI gli stili, e il laghetto dove puoi andare in canoa. ottima per le gite in stile "domenica pomeriggio" anche l'isola margherita sul danubio, con su i giardini e il parco acquatico.
anche qui consiglio di farsi l'abbonamento dei mezzi: con la tessera degli studenti (che a parma non esiste: gli ho dato con sicumera la tesser della biblioteca) abbiamo pagato l'abbonamento MENSILE meno del settimanale, comunque sempre sui tredici euro.
anche qui abbiamo speso poco, sempre con la tecnica del cenare in casa (all'ostello Corvin Point, molto piacevole, per la prima volta abbiamo trovato una VERA cucina), ma anche fuori puoi cenare stando sui dieci euro, a volte più a volte meno.
e finalmente siamo andati allo sziget, il festival che dura pressapoco una settimana, sopra ad un isoletta nel danubio. sei o sette palchi attivi dalle tre e mezza nel pomeriggio e musica fino alle quattro del mattino, campeggianti in ogni spiazzo erboso lasciato libero, mille baracchini che servono mangiare di ogni tipo e birra e unicum (il tipico amaro ungherese, così tipico che costa meno all'esselunga che al duty free). lì abbiamo incontrato una mia amica e altre signorine italiane, e conosciuto qualche giovane, poi hanno suonato i motorhead, ho sperimentato le alte pressioni e umidità delle prime file, sono arretrato spontaneamente tra la gente civile, ho cantato e scosso la testa, alla fine mi sono ricongiunto agli altri sempre rockeggiando. la serata è proseguita, poi qualcuno a goduto le gioie dell'amore libero, altri perlomeno le gioie del letto caldo dell'ostello, io ho goduto dell'ammirare il cielo stellato tutta la notte, tremando sul prato umido e malamente coperto dal sacco a pelo che la mia amica è riuscita a recuperare (facevamo così pena che verso l'alba sono tornati i proprietari della tenda vicino a cui eravamo accasciati e ci hanno gettato addosso una giacca). ma sono queste le cose che racconterò ai miei nipoti (o ai bambini che fermerò al cancello della scuola elementare nel caso non dovessi avere nipoti).
il giorno dopo l'abbiamo passato a riprendere le forze all'isola margherita, non prima di essere stato mezzora sotto la doccia bollente, e a finire i fiorini che il giorno dopo si ripartiva verso la terra della pizza (l'italia) assieme alla squadra giovanile del milan.
pacciani
giovedì 18 agosto 2011
mercoledì 17 agosto 2011
lunedì 15 agosto 2011
sabato 13 agosto 2011
venerdì 12 agosto 2011
autunno a giugno
autunno a giugno
a luglio inverno
agosto sarà
se non fine del mondo
inferno
m’autoabbandonerò in autostrada
il tredici d’agosto a mezzogiorno
uomini bambini donne e cani
surgelati condizionati sudorbrinati
mi guarderanno sbaccaliti
evaporerò in pochi attimi
diverrò nuvola grigia
se avremo fortuna e vento
potrò raggiungerti e pioverti un poco addosso
riderai
tutta fresca
tenterai forse
qualche passo di danza
saprai di me
non che son io
ti avrò fatta contenta di nascosto
cosa difficilissima
in questo caso un po’ tristissima, un po’ bellissima
Guido Catalano
a luglio inverno
agosto sarà
se non fine del mondo
inferno
m’autoabbandonerò in autostrada
il tredici d’agosto a mezzogiorno
uomini bambini donne e cani
surgelati condizionati sudorbrinati
mi guarderanno sbaccaliti
evaporerò in pochi attimi
diverrò nuvola grigia
se avremo fortuna e vento
potrò raggiungerti e pioverti un poco addosso
riderai
tutta fresca
tenterai forse
qualche passo di danza
saprai di me
non che son io
ti avrò fatta contenta di nascosto
cosa difficilissima
in questo caso un po’ tristissima, un po’ bellissima
Guido Catalano
giovedì 11 agosto 2011
mercoledì 10 agosto 2011
martedì 9 agosto 2011
lunedì 8 agosto 2011
diventare testimone di geova per amore
diventare testimone di geova per amore
andare a distribuire la torre di guardia per amore
vestirsi male per amore
morire dissanguati per amore
andare a distribuire la torre di guardia per amore
vestirsi male per amore
morire dissanguati per amore
sabato 6 agosto 2011
impiegati e bottegai unitevi
In un pamphlet di grande efficacia – La coscienza di un liberal, Laterza 2009 – il Nobel per l'economia Paul Krugman sosteneva che la grande crescita economica del dopoguerra negli Stati Uniti passò attraverso una riduzione della disuguaglianza dei redditi; e di questa forbice che si restringeva si avvantaggiò soprattutto il ceto medio. Sviluppo ed espansione della democrazia (ricordiamo il movimento per i diritti civili degli anni 60 e la Great Society di Lyndon Johnson) sono andati di pari passo per i "trenta gloriosi". Questo binomio virtuoso non vale solo per gli Usa. Più in generale, è al ceto medio che si fa appello per introdurre o rafforzare i sistemi democratici. Di tutti i fattori che determinano l'instaurazione e il consolidamento della democrazia, l'esistenza di una classe media non esigua, corollario di una contenuta disparità nella distribuzione del reddito, è il più potente.
Quando questa classe si riduce, la democrazia scricchiola. Accade in tutto l'Occidente. Da almeno due decenni il ceto medio è in un processo di ridimensionamento sia in termini numerici sia in termini di rilevanza politico-sociale. La diminutio si deve, anche, a una "scomposizione", da parte dei politici e degli opinion leader, delle sue due classiche componenti: quella salariata impiegatizia e quella autonoma attiva nel commercio, nelle professioni e nella produzione. I dipendenti a reddito fisso venivano penalizzati economicamente e simbolicamente delegittimando la loro attività in quanto "protetta" e, sotto sotto, parassitaria; la componente autonoma veniva esaltata come uno dei motori dello sviluppo, affiancandola all'interlocutore privilegiato delle élite politiche e del sistema mediatico, la borghesia imprenditoriale. Questa decostruzione e riconfigurazione simbolica ha avuto la sua massima espressione in Italia: l'esaltazione dell'homo faber, sub-specie di piccolo imprenditore del Nord-Est e incarnato dalla multiforme figura di Silvio Berlusconi, non ha pari nel resto d'Europa. Del resto, come ricordava Carlo Carboni sul Sole 24 Ore del 3 agosto, il nostro Paese ha 8 milioni di partite Iva, un numero decisamente più alto di Francia, Germania e Gran Bretagna. E corrispettivamente, la quota dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in Italia è di gran lunga inferiore rispetto ai grandi Paesi europei. Inoltre, il ceto medio autonomo ha trovato una sua rappresentazione politica in Forza Italia e nella Lega; nessuno si è assunto una consapevole ed esplicita rappresentanza di quello salariato, benché i suoi consensi vadano prevalentemente a sinistra. Anzi, come dimostrano le più recenti ricerche di Marco Pisati, Voto di classe. Posizione sociale e preferenze politiche in Italia, e di Paolo Bellucci e Paolo Segatti, 1968-2008 dall'appartenenza alla scelta (entrambi pubblicati nel 2010 da Il Mulino), sono proprio le due facce del ceto medio a esprimere la maggior polarizzazione del comportamento elettorale: esprimono preferenze politiche più nette rispetto a ogni altro segmento sociale, con i colletti bianchi orientati a sinistra e i lavoratori autonomi (più la borghesia imprenditoriale) orientati a destra. In altri termini, è dentro il ceto medio che passa la frattura politica. Questa divaricazione non poteva che indebolirne la voce. Quando emergono difficoltà economiche che investono anche il ceto medio, la polarizzazione politica al suo interno impedisce la creazione di un fronte comune per difenderne le posizioni. Il suo schiacciamento in termini economici e di status – specie per il pubblico impiego, vituperato senza tregua in questi anni – può innescare tensioni a livello sistemico e indebolire ulteriormente la già scarsa fiducia nel sistema democratico.
Finora il consenso a posizioni populiste e potenzialmente antisistemiche allignava nelle componenti più "periferiche" della società italiana, quelle con minor grado d'istruzione, più anziane e ai margini delle attività produttive. Ora, invece, la seduzione populista ha già conquistato settori del ceto medio "autonomo", spaventati dal processo di globalizzazione. Il divampare della crisi, coniugata con un deficit di rappresentanza, può sospingere porzioni sempre più ampie di questa classe nel suo insieme verso atteggiamenti protestatari, indirizzati verso l'élite politica, l'establishment, e i "poteri forti" indistintamente. È proprio per la tenuta del sistema che vanno ascoltate e comprese le esigenze del ceto medio, oltre che, ovviamente, dei colletti blu e degli strati socio-economicamente più svantaggiati. Sorgono in fretta apprendisti stregoni pronti a sollecitare le ansie e le frustrazioni di fasce sociali deboli o indebolite.
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-08-05/democrazia-scricchiola-senza-ceti-063832.shtml?uuid=AanUlrtD
Quando questa classe si riduce, la democrazia scricchiola. Accade in tutto l'Occidente. Da almeno due decenni il ceto medio è in un processo di ridimensionamento sia in termini numerici sia in termini di rilevanza politico-sociale. La diminutio si deve, anche, a una "scomposizione", da parte dei politici e degli opinion leader, delle sue due classiche componenti: quella salariata impiegatizia e quella autonoma attiva nel commercio, nelle professioni e nella produzione. I dipendenti a reddito fisso venivano penalizzati economicamente e simbolicamente delegittimando la loro attività in quanto "protetta" e, sotto sotto, parassitaria; la componente autonoma veniva esaltata come uno dei motori dello sviluppo, affiancandola all'interlocutore privilegiato delle élite politiche e del sistema mediatico, la borghesia imprenditoriale. Questa decostruzione e riconfigurazione simbolica ha avuto la sua massima espressione in Italia: l'esaltazione dell'homo faber, sub-specie di piccolo imprenditore del Nord-Est e incarnato dalla multiforme figura di Silvio Berlusconi, non ha pari nel resto d'Europa. Del resto, come ricordava Carlo Carboni sul Sole 24 Ore del 3 agosto, il nostro Paese ha 8 milioni di partite Iva, un numero decisamente più alto di Francia, Germania e Gran Bretagna. E corrispettivamente, la quota dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in Italia è di gran lunga inferiore rispetto ai grandi Paesi europei. Inoltre, il ceto medio autonomo ha trovato una sua rappresentazione politica in Forza Italia e nella Lega; nessuno si è assunto una consapevole ed esplicita rappresentanza di quello salariato, benché i suoi consensi vadano prevalentemente a sinistra. Anzi, come dimostrano le più recenti ricerche di Marco Pisati, Voto di classe. Posizione sociale e preferenze politiche in Italia, e di Paolo Bellucci e Paolo Segatti, 1968-2008 dall'appartenenza alla scelta (entrambi pubblicati nel 2010 da Il Mulino), sono proprio le due facce del ceto medio a esprimere la maggior polarizzazione del comportamento elettorale: esprimono preferenze politiche più nette rispetto a ogni altro segmento sociale, con i colletti bianchi orientati a sinistra e i lavoratori autonomi (più la borghesia imprenditoriale) orientati a destra. In altri termini, è dentro il ceto medio che passa la frattura politica. Questa divaricazione non poteva che indebolirne la voce. Quando emergono difficoltà economiche che investono anche il ceto medio, la polarizzazione politica al suo interno impedisce la creazione di un fronte comune per difenderne le posizioni. Il suo schiacciamento in termini economici e di status – specie per il pubblico impiego, vituperato senza tregua in questi anni – può innescare tensioni a livello sistemico e indebolire ulteriormente la già scarsa fiducia nel sistema democratico.
Finora il consenso a posizioni populiste e potenzialmente antisistemiche allignava nelle componenti più "periferiche" della società italiana, quelle con minor grado d'istruzione, più anziane e ai margini delle attività produttive. Ora, invece, la seduzione populista ha già conquistato settori del ceto medio "autonomo", spaventati dal processo di globalizzazione. Il divampare della crisi, coniugata con un deficit di rappresentanza, può sospingere porzioni sempre più ampie di questa classe nel suo insieme verso atteggiamenti protestatari, indirizzati verso l'élite politica, l'establishment, e i "poteri forti" indistintamente. È proprio per la tenuta del sistema che vanno ascoltate e comprese le esigenze del ceto medio, oltre che, ovviamente, dei colletti blu e degli strati socio-economicamente più svantaggiati. Sorgono in fretta apprendisti stregoni pronti a sollecitare le ansie e le frustrazioni di fasce sociali deboli o indebolite.
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giovedì 4 agosto 2011
x un hipster non c'è destinazione x le vacanze + cool
x un hipster non c'è destinazione x le vacanze + cool che rimanere in città
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