Unico ornamento sono le targhe e i ritagli di giornale che testimoniano come sia riconosciuta quale “miglore pasticcera” della città.
Sta per chiudere il negozio al calare della sera, quando un giovane con occhi verdi, capelli ricci e rossi ed un simpatico viso lentigginoso entra di corsa nella bottega.
Lei sorride vedendolo affannato. Si passa la mano sulla crocchia grigia per sistemare le poche ciocche ribelli e si aggiusta il grembiule con i pizzi antichi.
“Scusi signora....ha ancora delle paste?....è il compleanno della mia ragazza..”.
“Sto chiudendo e ho riposto quasi tutto sul retro...ma vediamo cosa è rimasto. Vieni con me così puoi scegliere nei vassoi”. Il giovane guarda gli occhi azzurri della nonna e pensa che da giovane doveva essere stata una bella donna, per un attimo immagina il suo corpo non ingobbito dal peso degli anni, i seni sodi e le gambe snelle.
Quando il giovane varca la porta si trova nel laboratorio della bottega. Piastrelle bianche immacolate, grandi tavoli d'acciaio su cui sono posati pentoloni enormi, sacchi di farina, frutti maturi, coni di zucchero su piani di legno, mattarelli lunghi e scaglie di cioccolato lo circondano, come fossero numi tutelari di un tempio.
La vecchia sorride: “assaggia questo è una delle mie ultime creazioni”. La pasta è una frolla dalla crosta brillante di zucchero, con piccole e umide ciliege candite. Mentre assapora la dolcezza dei frutti, ricordando il rosso cupo della loro pelle, lui sente improvvisamente le sue gambe che si intorpidiscono. Pochi secondi sono sufficienti perché cada a terra, incapace di rialzarsi, con la sensazione che il suo corpo sia completamente immobilizzato. La vecchia è sopra di lui. Lo guarda e sorride. Il ragazzo vorrebbe urlare ma anche la lingua è bloccata. Solo un filo di bava esce dall'angolo della bocca. La vecchia lo accarezza, lo guarda con tenerezza, come quaranta anni prima aveva osservato il volto di Marco, nella stessa posizione, nello stesso momento. Aveva amato molto Marco, anzi ormai poteva dire che era stato il suo unico amore.
La vecchia signora trascina il giovane verso il tavolo d'acciaio alzando intorno a sé una nuvola di farina. E' stanca, fa molta fatica, pensa tra sé che ormai è giunto il momento di andare in pensione, dovrà chiudere la bottega perché il suo corpo non regge più di fronte al peso di tanto lavoro.
Sul tavolo sono posti una serie di coltelli con lame piccole e grandi, zigrinate o lisce, dai manici di olivo o di acciaio. Ne prende in mano uno con l'impugnatura di legno e la lama a forma di vela di nave. Si avvicina alla mano del ragazzo e sfiora la sua pelle. Rammenta quando Marco le aveva preso la mano la prima volta, le sovvengono la forza e la dolcezza di quell'atto, ricorda come le erano sembrate belle le sue dita, eleganti e affusolate. Con gesto deciso la lama trancia il primo dito del ragazzo. Il dolore che l'uomo prova non è descrivibile, ma solo percepibile dai suoi occhi, dove si può intuire cos'è l'inferno senza che dalla sua gola possa uscire un solo rumore per raccontarlo.
Le altre dita entrano presto nella grande ciotola di marmo bianco. Dieci piccoli arti. Dieci frammenti di quel corpo che con il suo sangue sta allagando il pavimento.
La vecchia signora prende delle tenaglie di ferro nero e guarda con tenerezza il giovane. Evoca nella sua mente i baci di Marco, quando le loro lingue si toccavano e lei esplorava la sua bocca con quelle labbra così carnose e seducenti. La donna apre con forza la bocca del giovane e comincia a strappare i denti del ragazzo. La bocca si muta presto in una poltiglia di carne sanguinolenta.
La signora riflette sul fatto che le tenaglie sono oggetti utilissimi per svariati usi, chiunque dovrebbe sempre tenerle a portata di mano. Così guarda un'ultima volta quegli occhi verdi così limpidi e ricorda di come aveva pianto la prima volta che aveva fatto l'amore con Marco e aveva sentito il suo sguardo perdersi in quello di lui. Con le pinze afferra il bulbo è lo strappa gettandolo nel vassoio di marmo. La signora pensa che è strano come si assomigli il rumore dell'occhio gettato nel vassoio con quello che fanno le seppioline sbattute nella farina per la panatura.
Il relitto umano è ormai ridotto a fontana di sangue.
Quando abbassa i pantaloni e vede il cazzo ricorda di quando Marco la scopava con dolcezza, dicendole che l'amava, che non l'avrebbe abbandonata. Ricorda quando lo prendeva in bocca e succhiava avidamente la cappella, mentre la lingua si soffermava ad assaporarne il gusto, aspettando ansiosamente di poter ingoiare il suo piacere.
Un giorno, mentre stava preparando dei pasticcini nel laboratorio, lui le aveva detto con voce noncurante che la lasciava, che semplicemente di lei non voleva più saperne.
In quell'istante aveva deciso che quel corpo sarebbe stato per sempre suo. Si girò di scatto e con un solo fendente piantato in mezzo al cuore lo avevo ucciso. Una piccola goccia di sangue era uscita dal suo torace. Il corpo si era accasciato a terra con gli occhi ancora stupiti di chi non ha compreso che quello è il suo ultimo istante.
Mentre amputava il cazzo e i coglioni del ragazzo sospirava, rammentando quanto aveva amato Marco e quanto era bello il suo membro.
La ragazza aveva straziato il corpo, velocemente macinato e impastato con le farine più selezionate e le uova più fresche e poi divorato interamente la prima produzione di pasticcini che l’avrebbero resa famosa per il resto della vita.
La vecchia signora pensò che era proprio tardi e doveva ancora pulire tutto. Meno male che questa sera in tv davano “C'è posta per te”, è bello emozionarsi vedendo che le persone sanno perdonare ed amarsi ancora.
1 commento:
Io stasera la gafi la porto al Sushi Jucker
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