domenica 30 settembre 2007
ostalgia
Si è aperta a fine luglio alla Neue Nationalgalerie di Berlino la mostra "L’arte in Ddr", solo l’ultima in ordine di tempo tra le sempre più numerose manifestazioni dell’Ostalgia che si è impossessata della Germania unita: ostàlgia (da pronunciare con la g dura, come in "gas") è un neologismo formato da nostalgia e da Osten (che in tedesco vuol dire "est"), ovvero nostalgia per l’epoca in cui c’era la Germania orientale. L’esempio più clamoroso di ostalgia è stato naturalmente il film Goodbye Lenin che ha sbancato i botteghini e che, da febbraio – quando è uscito – a oggi, in Germania è stato visto da 6 milioni di spettatori. Ma già nel 2001, su un tema assai vicino, era uscito Berlin is in Germany di Hannes Stohr, che racconta le peripezie di un cittadino dell’est, imprigionato proprio prima della caduta del Muro di Berlino (novembre 1989) e liberato dieci anni dopo. Dell’anno scorso è invece Halbe Treppe ( l’edizione internazionale è intitolata Grill Point), commedia sentimentale di Andreas Dresen, sulle difficoltà di adattamento al capitalismo degli abitanti di Francoforte sull’Oder.
Naturalmente anche la Tv si è buttata su questo filone: da settembre il canale Rtl trasmetterà una serie sull’ostalgia, animata dalla pattinatrice della Ddr Katarina Witt (due volte olimpionica) in cui saranno ripresi spettacoli, canzoni, e altri aspetti della vita nella Germania orientale.
Ma l’ostalgia è visibile anche nei caffè e nei bar: poiché Goodbye Lenin uscirà in Francia a settembre, il corrispondente di Le Monde a Berlino in un articolo sul tema annovera, tra questi locali, il Kombinat a Berlin Mitte, in cui campeggia una bella stella rossa. In questo rimpianto per il passato confluiscono disparate componenti. Come in ogni epoca della storia, ci sono i nostalgici per vocazione, quelli che sarebbero nostalgici anche dell’inferno ("almeno lì faceva più caldo"). Ci sono i teorici del "come stavamo meglio quando stavamo peggio": genia che prospera anche nella sinistra italiana: in questo caso la variante dell’ostalgia è il rimpianto per la guerra fredda e per un’Unione sovietica che bilanciava lo strapotere Usa. Ci sono i privilegiati dell’ancien régime che hanno perso i loro privilegi e i membri di tutti gli apparati repressivi che hanno perso il loro status e sono stati criminalizzati. Ma in Germania ci sono le decine di migliaia di professori liceali di marxismo che hanno perso non solo il lavoro ma anche la propria specializzazione. E poi ci sono tutti gli scienziati della Germania est penalizzati dalle nuove graduatorie (per esempio sapere l’inglese fa punti per i concorsi universitari, mentre sapere il russo no). Ci sono i nuovi disoccupati, e i nuovi poveri. Ci sono i delusi dal capitalismo: viene in mente la battuta sui due russi che s’incontrano: "La sai la brutta notizia? Tutto quello che ci diceva il Pcus sul comunismo era falso". Risponde l’altro: "Ma c’è una notizia ancora peggiore: tutto quello che ci diceva sul capitalismo era vero".
E poi c’è un generale sentimento d’umiliazione: i tedeschi orientali (gli Ossi) vengono trattati dagli occidentali con la stessa considerazione che i leghisti di Umberto Bossi hanno per i "terroni". La Germania est è diventata la "questione meridionale tedesca" con una straordinaria somiglianza negli stereotipi. Gli Ossi sarebbero pigri, furbastri, burocratici, sempre in attesa della manna statale, privi di spirito d’iniziativa. Da 14 anni gli Ossi si sentono fare ogni giorno dai Wessi una lezione di civismo, di imprenditorialità, di moralità. Per i Wessi invece l’ostalgia è il piacere per un folklore desueto, assomiglia alla passione dei padani per la commedia napoletana, e la Trabant è l’equivalente metallico del carretto siciliano.
Questa nostalgia è particolarmente vistosa in Germania, ma – in gradi diversi – si manifesta in tutti i paesi dell’ex blocco sovietico. In ogni paese vi è una ragione specifica. In Polonia per esempio, adesso si sparla dei preti come sotto il comunismo si denigravano i commissari del popolo (cioè sempre per allusioni e a bassa voce). In Russia il crollo della produzione, dell’economia, del livello di vita e anche della speranza di vita (tra il 1991 e il 1994 la durata della vita media dei maschi russi diminuì di 6 anni!) abbellirono il ricordo del passato (che d’altronde appare sempre più roseo di quel che fu in realtà).
Ma il rimpianto del comunismo è un fenomeno complesso su cui si studia da parecchi anni. Nel 1996 si tenne una memorabile conferenza a Bellagio. Nel 2001, nella New York del dopo 11 settembre, girellando per una libreria Barnes and Noble, inciampai in un volumone dal titolo che mi affascinò: The Future of Nostalgia (pp. XIX, 404, Basic Books, 2001) della slavista russa, oggi professoressa ad Harvard, Svetlana Boym. Alla fine di questa primavera è uscito per i tipi di Bruno Mondadori un volume collettivo, Nostalgia. Saggi sul rimpianto del comunismo (pp. 290, € 24,00), la cui prima parte è una versione molto abbreviata del saggio di Boym (mi piaceva di più il titolo inglese) che ha il pregio di discutere in generale questa strana categoria della modernità e di tracciarne una breve storia: il primo "manifesto della nostalgia" è redatto nel ‘400 dal primo poeta maledetto moderno, François Villon: "Mais où sont les neiges d’antan…?" ("Dove sono le nevi d’un tempo che l’aprile ha disciolto?").
Intanto il termine stesso è un neologismo pseudo-greco – da due parole elleniche, nostos, ritorno a casa, e algos, dolore – che fu coniato nel 1688 dal medico svizzero Johannes Hofer per descrivere una precisa malattia: "la tristezza ingenerata dall’ardente brama di tornare a casa". In realtà la nostalgia assunse subito un significato più vasto e poté coesistere, senza sovrapporsi, con i termini specifici che le varie lingue hanno per designare il rimpianto del proprio paese, mal du pays in Francia, Heimweh in Germania, mal de corazon in Spagna. Per Hofer, chi soffriva di nostalgia aveva "rappresentazioni distorte", perdeva contatto con la realtà, assumeva un aspetto esanime e allampanato, confondeva eventi reali e immaginari, passati e presenti, sentiva voci e vedeva fantasmi. Il ritorno diventava un’ossessione. La nostalgia era perciò una vera e propria malattia, con tratti in comune con l’ipocondria e la melancolia. Di diverso c’era che la nostalgia era non solo una sindrome privata, ma anche un morbo pubblico. "Nel 1733 l’esercito russo cadde vittima della nostalgia appena entrò in territorio tedesco e la situazione divenne così seria che il generale fu costretto a escogitare una cura radicale per debellare il virus nostalgico. Minacciò che il "primo che si fosse ammalato, sarebbe stato sepolto vivo"". A fine ‘700 la nostalgia era diventata "un’epidemia pubblica" (nella stessa costellazione di sentimenti, dilaga nella stessa epoca la passione per le rovine). Addirittura, "le autopsie che furono eseguite sui soldati francesi morti nella proverbiale neve russa durante la disastrosa ritirata della Grande Armata napoleonica rivelarono che molti di loro presentavano infiammazioni cerebrali caratteristiche della nostalgia".
La nostalgia sarebbe dunque solo un’altra di quelle "malattie transitorie" di cui parla il filosofo Ian Hacking, che vengono diagnosticate in certi luoghi per un certo periodo e poi scompaiono. Oggi, dice Boym, la nostalgia è una sindrome medica solo in Israele (non per caso, si potrebbe aggiungere). C’era però in questa concezione medica della nostalgia un risvolto sanitario che ci appare balzano – ma non più dell’idea che la depressione sia debellabile col Prozac – e cioè che la nostalgia fosse curabile. Ma mano mano che l’ideologia del progresso si diffondeva e predominava, la nostalgia non era più una sindrome individuale, ma diventava un vero e proprio mal du siècle.
Il proprio del progresso è di relegare il passato nell’irripetibilità: poiché noi siamo progrediti rispetto a esso, non potremo più vivere ed essere come eravamo allora. Il desiderio del ritorno al passato diventa un desiderio impossibile perché il passato non potrà mai ripresentarsi come era. L’esito più esasperato di questo procedimento è riscontrabile nel titolo dell’autobiografia dell’attrice (e compagna di Yves Montand) Simone Signoret, La nostalgie n’est plus ce qu’elle était ("La nostalgia non è più quella di una volta).
Da malattia debellabile a male incurabile, la nostalgia è il marchio indelebile ogni percezione del moderno. Anzi, poiché ogni presente è destinato a fulmineamente divenire passato, il secondo romanticismo elabora una nuova forma di nostalgia: la nostalgia del presente. Ognuno guarda l’istante attuale come quel labile momento che sta per sprofondare in un irrepetibile passato. Charles Baudelaire lo esprime benissimo nella poesia La Passante (prevedibilmente citata da Svetlana Boym), in cui egli guarda una passante che incrocia per mai più rivederla, con già la nostalgia di un amore che avrebbe potuto essere e non sarà, la nostalgia di un amore virtuale.
Sempre nell’800, quando Los Angeles era un avamposto spagnolo, Chicago era ancora un paesello, e New York era una piccola cittadina comparata a Londra o Parigi, un promotore immobiliare di Saint Louis prediceva che "dalle frenetiche città della Costa Pacifica, pellegrini sentimentali giungeranno là dove ora sono Boston, Filadelfia e New York e contempleranno lunari, con malinconia, le tracce delle Atene, delle Babele e delle Cartagine dell’emisfero occidentale" (ancora le rovine, solo che in questo brano sono "ruderi posteri"). Qui siamo addirittura in una situazione di nostalgia del futuro, di vivere il presente in uno stato di futuro anteriore.
Dalla nostalgia del paese natio e del passato, siamo passati alla nostalgia del presente, e poi alla nostalgia del possibile, e poi alla nostalgia del futuro. Cioè alla nostalgia come sentimento intransitivo, che non si riferisce a nulla di specifico, che non ha neanche una specifica ragione di essere, ma soffonde di malinconia l’intera percezione interiore del nostro esistere: cosa è lo spleen se non una nostalgia intransitiva? Se la nostalgia permea tutta la nostra percezione, vuol dire che ci sentiamo costantemente estraniati, spaesati: "la società moderna appare come un paese straniero, la vita pubblica un’emigrazione dall’idillio familiare, l’esistenza urbana un esilio permanente" (Boym).
Infine c’è una nostalgia anche di ciò che non è mai esistito, come esprime in modo fantastico una poesia di Giorgio Caproni, intitolata "Ritorno" – nel nostro contesto diremmo nostos – che Boym cita alla fine del suo libro inglese (nella versione italiana manca tutta la parte su come influisce l’informatica sulla nostalgia):
"Sono tornato là / dove non ero mai stato. /Nulla, da come non fu, è mutato. /Sul tavolo (sull’incerato / a quadretti) ammezzato / ho ritrovato il bicchiere mai riempito. Tutto / è ancora rimasto quale / mai l’avevo lasciato."
È probabile che la nostalgia del comunismo appartenga, almeno in parte, a questo rimpianto di quel che non fu.
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