E' all’ora di cena cerco sempre con un po’ di nostalgia quel contenitore in metallo che Calvino chiamava pietanziera. Naturalmente non la trovo, perché tutto è cambiato, i proletari che le usavano sono stati decimati e in assenza di domanda anche l’offerta cala. Quindi, in attesa di vedere una collezione completa di pietanziere quadrate, tonde e ovali esposta al MOMA di New York, ho iniziato a cercare un loro sostituto nel neoproletariato. Ho scoperto che in questa evoluzione del proletariato non era il contenitore, ma il contenuto ad avere importanza. Il cibo, cioè, visto come sostentamento non del corpo, ma delle esigenze di eleghanzia.
Ho compiuto la prima ricerca nei ristoranti che a Milano, come ogni altra cosa, hanno prezzi vergognosamente pompati, ma il neoproletario è più che disposto a sacrificare una provvigione o la più grossa fetta del suo salario pur di sentirsi inserito nel mondo che cambia e diventa una cosa sola.
Prima dell’avvento del neoproletariato cibo era sinonimo di casa. Lo stesso Fantozzi, nella coercizione di tutta una giornata di lavoro noioso, trova l’unico sollievo nel pensare al menu che lo attende a casa e annunciatogli dalla moglie sin dal mattino. E al suo ritorno grida liberatorio: “Pina, sono pronti gli spaghetti con il tonno? E’ tutta la giornata che ci penso…”. Come Tigrotto, protagonista di libri francesi per bambini, che in “Tigrotto è in vacanza” rientra da un giro del mondo e sente di essere finalmente tornato nella pace della sua campagna francese solo quando si siede a tavola e “cena tranquillamente davanti al televisore”. Come Marcel Proust che, sotto gli ippocastani di quella stessa campagna francese di Tigrotto, alla tensione e alla tempesta dei sensi provocate dalle lunghe letture di avventure esotiche contrapponeva l’aspettativa domestica e tranquillizzante del “buon pranzo che Françoise stava preparando”.
Nel mondo del neoproletario il cibo deve invece essere qualcosa che porta lontano da casa e i sapori noti lo fanno fuggire rapidamente dal desco familiare. Un’icona del neoproletariato, Max Pezzali (Week End, 1992), è uno dei primi che, al pensiero di dover mangiare “pasta in brodo oppure minestrone, ad andar bene un po’ d’affettato” scappa di casa e va alla ricerca di un tavolo in qualche locale, ma li trova “tutti pieni” della folla di neoproletari gastronomicamente apolidi alla domenica sera.
Il neoproletario è un Proust che non legge e quindi nel cibo sino-giapponese o messicano o indiano trova quella tensione e quella tempesta delle viscere che lo scrittore francese trovava nei libri d’avventure.
Io invece sono un neoproletario e ogni volta che vado al Take Away Cinese Peruviano, di fronte a quell’unione di occhi a mandorla e nasi aztechi mi chiedo quale strano legame vi sia tra Cina e Perù. Una contaminazione reale, nata fuori dalla vacua aspirazione iconografico-pacifista delle ideologie patinate che nutrono l’eleghanzia.
Intorno a me, seduti all’unico tavolo o alla lunga mensola a muro, i Peruviani mangiano menù veramente contaminati di riso alla cantonese e lomo saltato, accompagnano l’arroz cheufa con i wanton e se ne fregano delle speculazioni intellettuali sul melting pot preferendo a questo l’ultimo l’uso concreto del wok. Intanto parlano male dei loro principali nelle imprese di pulizie per le quali lavorano, brindando con bicchieri colmi di Inka Cola, un liquido dolciastro e giallo oro che, come specifica il nome, è di chiara provenienza peruviana. Sotto i neon di questo Take Away ho visto mangiare in fretta allo stesso tavolo un transessuale peruviano già in abiti da lavoro e un ambulante cinese con a fianco il cesto di gadget, entrambi pressati da una notte di lavoro che li attendeva in una città che si finge multirazziale, ma che costringe quelle razze a vivere in zone, con momenti e davanti a cibi ben diversificati. Sul tavolino di fronte alla strana coppia sino-peruviana le vaschette di stagnola che contenevano il cibo non avevano assolutamente quel fascino glam che invece io vi trovavo, vittima della asimmetria neoproletaria che fa vedere l’inesistente quando questo è utile al raggiungimento del pluscool.
[Quando esco dalla rosticceria, anzi take away, come vuole la glamourizzazione neoproletaria, mi sento molto up-to-date, molto baudrillardiano, lyotardiano... Mi sento come il protagonista di uno squallido articolo sui single metropolitani, quelle collazioni di banalità composte da qualche zitella della provincia comasca, fiera di essere arrivata in città e di scrivere per un femminile patinato, una che non sa cos’è il neoproletariato, che ha in casa un intero servizio per il tè che ha comperato in Marocco e se ti invita a cena ti costringe a mangiare un cous cous cucinato malissimo, ascoltando musica etnica, ma evita ogni rapporto con i veri maghrebini ai semafori. Una che vive spinta dalle peggiori aspirazioni all’eleghanzia, che desidera essere una intellettuale, ma che non sarà mai un’intellettuale minimalista, non avendo sviluppato alcun senso critico verso i neopadroni; è solo uno dei tanti ingranaggi della manovalanza editoriale di cui il potere si serve per riempire le riviste tra un inserzionista e l’altro.]
Uscito dal take away camminavo con in mano le vaschette calde e insieme al profumo degli gnocchi di riso aspiravo un aroma di intellettualità, urbanità e multiculturalità.
A casa, togliendo il coperchio alle vaschette, ho anche pensato per un momento agli immigrati che in Rocco e i suoi fratelli piangevano quasi quando un parente appena arrivato a Milano portava loro delle arance dalla loro terra. Pensavo: io non ho terra, non ho un cibo che posso legare alla mia infanzia. Però ho contenitore di cibo che posso legare alla mia infanzia: la pietanziera. E lì, seduto sul divano, mentre guardavo senza capirlo un qualsiasi canale del bouquet satellitare arabo, mi accorsi che la vaschetta di stagnola da cui mangiavo gli gnocchi di riso era metallica e quadrata come le pietanziere usate da mio padre molti anni prima. Il neoproletariato che nasceva dalle ceneri (da un riciclaggio impossibile di metalli) del vecchio proletariato. Il Tesoro ritrovato. La commozione di un attimo.
Tommaso Labranca