Quest’idea della dignità estrema del lavoratore umile, dell’eroicismo di tutti i giorni, questa saga dell’operaio con quattro figli nullafacenti a carico, queste storie da rotocalco da barbiere, hanno sì trasmesso una concezione (che decontestualizzata può anche avere una valenza positiva) dell’ “accontentarsi è meglio”, del “la vera impresa è tirare dare avanti lavorando con dignità” ma in maniera esasperata ed impropria. Più che dare voce a persone meritevoli è finita per fornire un alibi, una scusa per chi non ci vuole neanche provare. Da generazioni.
Mi accorgo però che, fatta eccezione per i fruitori precoci di questa ideologia della mediocrità, reale o apparente che sia, i cosiddetti “giovani” non se la “bevono”.
“Tu ci trovi dignità a stare in poltrona, con la pantofola, lo spaghetto pronto e Bonolis, giustificato e beato dalla consapevolezza di aver lavorato tutto il giorno? Beh io no, caro papi, con la dignità non ci compro una sega e me ne vado al Gioia a spendere quelle due lire fradice di sudore che da operaio quale sei hai portato a casa.”
Ed è qui che si perde l’unico scampolo di idea valida della filosofia del “povero è bello”: la dignità del lavoro. O meglio, la vergogna del lavoro. Si parla ovviamente di lavori semplici. Pochi si vergognano di fare i direttori finanziari.
Ho assistito inorridito allo sfogo di un amico barista (in quanto proprietario del locale) che mi raccontava come oggi sia impossibile trovare ragazze di aspetto decente per servire ai tavoli. Si vergognano. È degradante. Lo fanno per una settimana e poi chiedono di essere messe dietro al banco. Icone, ruoli dettati da campagne di comunicazione devianti e criminali. Ammiccanti ragazze o muscolosi fantocci che fanno roteare bottiglie di superalcolici sopra la testa con la velocità con cui fanno roteare i coglioni. E di colpo non sei più barista, sei BARTENDER. Una sorta di superpippo del bar dello sport. Ti senti subito nobilitato, non degradato e imprigionato dalla terminologia della nostra vetusta ed insulsa lingua, non barista ma bartender. E di colpo non ti vergogni più di servire da bere alle persone. Perché questa è la base del problema: servire gli altri, è stargli sotto, è essere da meno. Questa profonda incomprensione, deformazione, cela malamente le radici di un paese ancora impregnato dell’odore della terra. Un paese basato sul primario e sul secondario, al quale la logica del servizio è aliena. Fornire un servizio è sottomissione. Io a te non ti porto da bere al tavolo te lo vieni a prendere al bar. Da me che sono il bartender e intanto faccio anche il mio spettacolino.
Forse, se cominciamo a chiamarle WAITRESS anziché “cameriera”, fuggiranno in branco dai loro corsi fasulli di design, dai posti di HOSTESS alle fiere (dove si sentono nobilitate dal gesto di fare presenza) e correranno verso il bar più vicino. E le cose torneranno ad avere senso. Per alcuni.
Il Deboscio
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