di Barbara Carnevali
[Questo articolo recensisce il saggio della sociologa israeliana Eva Illouz, Perché l’amore fa soffrire, pubblicato originariamente in tedesco (Warum Liebe weh tut, 2011), tradotto in inglese e francese, e atteso in edizione italiana per il Mulino. In Germania il libro è stato un caso editoriale; nei paesi di lingua inglese ha suscitato un lungo dibattito. Il 4 gennaio 2013, “Le parole e le cose” ha pubblicato una videointervista all’autrice].
L’amore come patologia sociale
Da alcuni anni Eva Illouz ha intrapreso un affascinante programma di ricerca dedicato alle forme con cui modernità ha plasmato la vita affettiva[1]. Il suo ultimo libro affronta il problema più delicato e avvincente, il rapporto tra eros e capitalismo, chiedendosi quale sia lo specifico modo di soffrire per amore che caratterizza la cultura contemporanea.
Si tratta, in primo luogo, di relativizzare fenomeni solo apparentemente universali[2]. La sofferenza amorosa sembra senza tempo, e la letteratura sarebbe pronta a dimostrarlo. Ma il senso da attribuirle è condizionato dai quadri ideologici e istituzionali che strutturano le diverse forme di vita, e può addirittura invertirsi nel passaggio da un contesto all’altro. Il dolore che fu esaltato dal cristianesimo e dal romanticismo è diventato vergognoso al tempo del capitalismo. Per la mentalità terapeutica e concorrenziale che ispira i nostri costumi, contraddicendo i valori romantici ancora latenti nella cultura pop, lo struggimento del desiderio inappagato che il codice stilnovistico celebrava come prova di grandezza interiore è un sintomo di scarsa salute emotiva e l’indice di un fallimento, di una svalutazione dell’io.
L’approccio della sociologia storica sfocia quindi nella denuncia delle strutture sociali che condizionano la vita affettiva, distorcendola. L’indagine si iscrive in quella linea del pensiero critico che si fa carico di diagnosticare le cosiddette “patologie del sociale”, e che a sua volta è erede del progetto illuministico di secolarizzazione della teodicea[3]. Tale progetto consiste nello spiegare la sofferenza umana spostandone l’origine dal cielo alla terra, nel attribuire il male non al volere di Dio o al peccato di Adamo, ma alla responsabilità sociale collettiva che permette a una forma storica di civiltà di creare e perpetuare istituzioni ingiuste. Anche per il mal d’amore, in altre parole, vale il principio “la colpa è della società”:
Così come era audace, alla fine del diciannovesimo secolo, affermare che la povertà non era il frutto di scarsa moralità o di una debolezza del carattere, ma il risultato di un sistema di sfruttamento economico, è diventato ora urgente affermare che i fallimenti delle nostre vite private non sono, – o non sono solo – il risultato di psiche vacillanti, ma che le vicissitudini e le infelicità della nostra vita amorosa sono il prodotto delle nostre istituzioni […] di cui deve essere trovata l’origine nell’insieme delle tensioni e delle contraddizioni sociali e culturali che strutturano ormai l’io e le identità moderne.
L’idea di una patologia sociale dell’amore non è nuova; risale a Rousseau, se non addirittura a Sant’Agostino. Ma solo in tempi recenti è diventata parte di un programma di ricerca. La sfera emotiva sembra infatti sfuggire alla presa del sociologo per la sua natura psichica, soggettiva e squisitamente privata. La modernità tende a pensare le emozioni e ad affrontarne i risvolti patologici nei termini dell’io: non manca di pratiche terapeutiche, ma i suoi modelli dominanti, dal self-help alla psicanalisi, trattano la sofferenza amorosa solo come un problema psicologico: come una scelta razionale e cosciente, o come il prodotto di schemi inconsci di origine familiare, secondo la versione della vulgata psicoanalitica[4]. Dal punto di vista della sociologia critica questo modo di pensare è una robinsonata, l’equivalente del mito liberista in economia: scarica tutta la responsabilità sul soggetto, e non riconosce nelle emozioni dei fenomeni sociali a tutti gli effetti. La vita emotiva non inizia e non finisce nell’io, ma è strutturata una grammatica di valori, istituzioni e quadri culturali che trascende gli individui irretendoli in un tessuto di forze da cui non possono svincolarsi solo con la loro buona volontà. La grammatica dell’amore moderno è il capitalismo, e il capitalismo ha la caratteristica di creare contraddizioni immanenti. Su queste contraddizioni deve fissarsi la critica.
La grande trasformazione amorosa. Dal paradigma di Jane Austen al paradigma dell’autenticità
Sono due i mutamenti essenziali in cui consiste quella che Eva Illouz definisce la “grande trasformazione” dell’amore moderno, parafrasando e riadattando la celebre tesi di Karl Polanyi sulla nascita dell’economia capitalistica: il nuovo equilibrio tra amore e stima sociale, che ha esposto l’individuo al rischio della lotta per il riconoscimento; e la nascita del libero mercato sessuale (per opposizione al mercato chiuso che vigeva prima, perché pur sempre di mercato matrimoniale si trattava), che ha instaurato una nuova variabile della disuguaglianza e inedite forme di dominio.
Per cogliere questi mutamenti, Illouz usa la tecnica degli idealtipi. È più facile cogliere la specificità del paradigma in cui viviamo se lo confrontiamo con un altro paradigma, quello descritto nei romanzi di Jane Austen, che presenta il giusto equilibrio tra vicinanza e distanza: si tratta di un modello moderno, retto come il nostro dai valori dell’individualismo e dell’amore elettivo (i matrimoni non sono combinati, ma sono il frutto di una scelta consapevole), ma che presenta differenze molto significative per il modo in cui la ricerca del partner si modula nella realtà: una diversa costellazione di istituzioni e valori modifica sensibilmente sia l’ecologia che l’architettura della scelta amorosa.
Il paradigma austeniano ruota intorno alla nozione di carattere e a un’etica delle virtù pubbliche (o della “chiarezza morale”), un sistema di valori condiviso esplicitamente da tutta la comunità che permette di valutare il comportamento individuale secondo parametri oggettivi. La relazione affettiva tra due persone nasce e si sviluppa nella modalità ritualizzata del “fare la corte” davanti agli occhi di un pubblico, il cui giudizio interviene come fondamentale entità mediatrice. Questa struttura condiziona fortemente il fenomeno del riconoscimento e sul rapporto che esso intrattiene con l’amore: i protagonisti di un romanzo di Jane Austen non ricavano il senso del loro valore direttamente dallo sguardo dell’innamorato, come farebbero invece due amanti dei nostri giorni; lo ottengono in primo luogo dalle fonti stabili della loro classe o del loro genere di appartenenza, i cui criteri cercano di armonizzare con l’architettura della loro scelta. Il merito non coincide tanto con le qualità e i talenti individuali quanto con la capacità virtuosa di conformarsi a un codice etico: comportarsi da gentiluomo, rispettare la parola data, una promessa, un impegno. Ne consegue che il valore di una persona può essere percepito come del tutto indipendente da quello che le attribuisce il suo pretendente, e che un rifiuto o un abbandono non pregiudica la stima di cui una persona gode all’interno della comunità. Intrappolandolo all’interno delle sue norme, in altre parole, la società tradizionale preserva l’io dall’esposizione della ferita narcisistica. Il contrario di ciò che avviene nel paradigma contemporaneo moderno, dove a essere coinvolta è l’essenza stessa dell’io, e il riconoscimento amoroso si indirizza alla parte più intima e singolare dell’individuo: «l’amore diventa così un aspetto della dinamica delle disuguaglianze morali, le ineguaglianze nella percezione del proprio valore».
Un’altra differenza che separa il paradigma contemporaneo da quello di Jane Austen è quella tra la natura ontologica o performativa delle emozioni. Nel nostro “regime di autenticità”, i sentimenti sono concepiti come entità reali e date che precedono le relazioni affettive, esistendo indipendentemente da esse e condizionandone la possibilità e l’esito. L’amore c’è o non c’è all’interno della psiche individuale; prima di mettersi insieme o di lasciarsi, due persone devono cercare di capire cosa “provano davvero” l’una per l’altra. Questo scrutinio interiore – che abbia la forma dell’analisi o dell’epifania, del colpo di fulmine o della disillusione graduale – precede di diritto il loro impegno nel rapporto reciproco. L’emozione guida l’azione, e il rapporto è autentico nella misura in cui corrisponde alla qualità reale dei sentimenti che lo informano. All’interno del regime performativo caratteristico delle società tradizionali[5], al contrario, i sentimenti tendono a essere concomitanti o addirittura successivi agli atti e ai rituali amorosi: sono un effetto, non la causa delle relazioni. Una donna si innamora durante la corte che riceve, e così il pretendente risponde ai suoi segni di interesse aumentando l’intensità e ufficialità del suo impegno di fronte alla comunità. La richiesta di matrimonio è l’atto che esemplifica questo complesso meccanismo di feedback: è la condizione di possibilità del sentimento, più che la sua funzione o il suo prodotto. L’azione guida l’emozione: come veniva ripetuto alle nostre nonne esitanti, «sposalo, e poi imparerai a volergli bene».
Ora, Illouz sostiene provocatoriamente che questa convenzionalità, insincera e soffocante per la nostra sensibilità, presenta degli indubbi vantaggi per l’individuo. Rispetto all’ethos dell’autenticità, il regime performativo garantisce un maggiore controllo sull’economia emotiva. Fornendo moduli di comportamento prevedibili e facilmente interpretabili perché fondati su una grammatica pubblica, permette al singolo di calibrare il suo coinvolgimento della relazione, e di proteggersi dal rischio dell’insuccesso e del rifiuto. Non c’è nulla da “analizzare”, in termini psicologici e psicanalitici, dietro un gesto, come una visita fatta o mancata, il cui significato è chiaro a tutti. E quando tra il gesto e il suo significato si crea uno iato, come in quelle situazioni romanzesche in cui il corteggiatore si rivela un poco di buono, la comunità interviene in soccorso formulando il suo giudizio di condanna e garantendo all’individuo ingannato il suo riconoscimento sociale: l’abbandono non umilia, e può addirittura rafforzare la stima di sé. È un altro esempio della dialettica in cui incorre la modernità: l’emancipazione dell’individuo dai vincoli comunitari lo rende più libero e autonomo, ma proprio per questo anche molto più fragile ed esposto al dolore.
L’amore sul libero mercato: l’estensione del dominio della lotta
Ma il fenomeno in cui questa contraddizione si manifesta nel modo più distruttivo è quello cui è dedicato il capitolo più cupo dell’analisi di Illouz, e in cui trova tutto il suo senso la metafora della grande trasformazione capitalistica. La rivoluzione sessuale ha portato a compimento il processo avviato dalla mobilità sociale, liberando definitivamente gli individui dai vincoli di classe, genere, etnia, età che regolavano il sistema dell’accoppiamento. La ricerca di un partner non si svolge più all’interno di sfere delimitate con rigore, normate da codici e pesanti interdetti, ma, grazie anche alle possibilità aperte dalla tecnologia e dai media, si estende all’intero universo dei possibili. Anche i criteri della scelta individuale si sono arricchiti: alla conservazione dello status e del patrimonio, che sopravvive ovviamente anche nello stadio capitalistico, si è affiancato il gusto personale, che dà sempre più spazio alla ricerca di affinità idiosincratiche, all’attrazione fisica e soprattutto al sex appeal, che rappresenta la novità più significativa rispetto al vecchio paradigma. Si può trovare una perfetta illustrazione di questa nuova architettura del desiderio nei siti di incontri in internet, in cui l’utente seleziona le qualità desiderate – sesso, età, bellezza, professione, hobbies – e viene messo in contatto dal motore di ricerca con ogni potenziale partner del globo.
Ma che cos’è questa relazione universale che connette soggetti astratti, svincolati da qualsiasi quadro di riferimento, sulla base di presunte preferenze individuali, se non ciò che l’economia definisce mercato? Thomas Hobbes, assistendo allo stadio iniziale di questa trasformazione in cui molti hanno identificato l’essenza stessa della modernità, l’aveva descritta come un endemico stato di concorrenza universale, la guerra di tutti contro tutti; con la lucidità consueta, aveva formulato le conseguenze sul piano del valore individuale: «Il valore, o Prezzo di un uomo, è, come in tutte le altre cose, il suo prezzo… non è perciò una cosa assoluta, ma dipende dal bisogno e dal giudizio altrui»[6]. È la legge del desiderio di desiderio, dell’identificazione ultima tra valore individuale e status, dell’”io valgo in quanto tu mi vuoi”. Come ha mostrato René Girard, questo principio può applicarsi anche all’amore, ma a condizione di identificarne riduttivamente la promessa di riconoscimento con il prestigio sociale[7]. Fondendosi con l’amor proprio e con l’onore, il desiderio amoroso moderno diventa allora un dispositivo di convalida dello status: una sottile astuzia del narcisismo per far salire il prezzo dell’io e guadagnare punti nella sfrenata corsa dell’”economia della stima”.
Ma solo in seguito alla liberazione sessuale, che ha abbattuto le ultime barriere che proteggevano eros dal mercato, radicandolo in un reticolo di norme etiche e legali, la grande trasformazione ha invaso le emozioni. L’amore è diventato a pieno titolo un campo della concorrenza capitalistica. Paradossalmente, è stato il Sessantotto a realizzare l’incubo del cinismo economico, secondo la geniale intuizione di Houellebecq:
Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali. Ugualmente, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali… L’individuo moderno è (così) pronto a prendere posto in un sistema di scambi generalizzati nel quale è divenuto possibile attribuirgli, in maniera univoca, un valore di scambio[8].
L’analisi di Illouz, che non cita Houellebecq[9], prende avvio da questo stesso evento. Sul mercato l’amore diventa merce, dotata di valore di scambio e destinata a creare relazioni di dominio. Qui interviene il momento critico della sociologia, come chiarisce questa dichiarazione programmatica che parafrasa ironicamente il Capitale:
Il mio scopo è trattare l’amore come Marx trattò le merci: si tratterà di mostrare che l’amore è il prodotto di rapporti sociali concreti, e che l’amore circola su un mercato fatto da attori in situazioni di concorrenza, e ineguali; e di sostenere che certe persone dispongono, rispetto ad altre, di una più grande capacità di definire le condizioni in cui sono amate.
I rapporti di dominio strutturanti il campo sessuale sono analoghi a quelli che si instaurano in ogni forma di mercato. Vi sono capitalisti sessuali, che accumulano conquiste come conferme del proprio status. E vi sono proletari sessuali, quelli che il vernacolo italiano chiamerebbe molto opportunamente gli “sfigati”, ossia coloro il cui destino di perdenti si manifesta anzitutto nell’insuccesso erotico[10]. Il suo intimo nesso con il riconoscimento fa dell’amore una incarnazioni più potenti e più subdole (anche perché denegate dalla retorica sentimentale) del dominio simbolico teorizzato da Pierre Bourdieu: un dominio, certo, che è sempre esistito, e che in fondo è implicito nel concetto stesso di seduzione; ma che in regime capitalistico assume una inedita forma cumulativa. Esiste infatti un capitale erotico, consistente di trofei, conquiste, segni di apprezzamento estetico e di desiderabilità: quello esibito dalle modelle l’Oréal quando commentano compiaciute “io valgo”, e contenuto nei cosmetici che promettono di preservare e incrementare il “capital beauté”[11]. Valorizzando qualità naturali che sono in parte indipendenti dalle risorse materiali, il capitale erotico ha la caratteristica di essere indipendente dal capitale economico. Houellebecq ha formulato il principio: «Certi guadagnano su entrambi i tavoli; altri, su entrambi perdono»; «sul piano economico, Raphaël Tisserand appartiene al clan dei vincitori; sul piano sessuale, a quello dei vinti»[12]. Ma benché indipendenti, le due forme di capitale sono transitive. Il che permette al capitalista erotico e a quello economico di mercanteggiare e stipulare un contratto soddisfacente per entrambi: come il Presidente e l’Olgettina, e come la coppia maledetta protagonista dell’ultimo romanzo di Walter Siti, Resistere non serve a niente, formata dalla velina e dal trader. Quando invece non c’è contratto, c’è solo la prevaricazione oscena, incarnata magnificamente dal Don Giovanni “executive” di Haneke: capitalista di tutti i capitali, che vince in scioltezza su qualsiasi campo[13].
Il sesso debole
Non è questa tuttavia la chiave di lettura proposta da Illouz, che interpreta l’opposizione tra dominanti e dominati in una sua originale prospettiva femminista, individuando il soggetto debole del capitalismo amoroso in una specifica categoria sociale: le donne della classe media che hanno deciso di investire nella famiglia e nei figli. A farle soccombere sul mercato sessuale è il loro peculiare rapporto con il tempo, quella diversa misurazione dell’esistenza che volgarmente chiamiamo orologio biologico. Spaventate all’idea di perdere la fertilità, tendono ad accelerare i ritmi della relazione e ad assumere una posizione masochistica nella delicata negoziazione tra autonomia e dipendenza; suscitano e allo stesso subiscono la “fobia per l’impegno” che rappresenta la complementare reazione degli uomini. Per loro il rapporto tra Sesso e Tempo si pone con ritmi più lenti, suggerendo che il campo dei possibili sia sempre infinitamente aperto:
Il campo sessuale è dominato dagli uomini, che possono restarci più a lungo e che dispongono di una scelta più vasta … La loro reticenza a stabilire legami di lunga durata ne è una conseguenza.
Gli uomini sono avvantaggiati sul mercato sessuale: investono meno delle donne nel riconoscimento affettivo perché hanno altre e più importanti conferme del loro status, dal lavoro e dal successo economico; non sono biologicamente e culturalmente definiti dalla riproduzione; e sono favoriti dalle norme sociali del sex appeal, che esaltano soprattutto la giovinezza femminile. Più in generale, riprendendo temi più classici della critica femminista, Illouz riconosce una delle principali contraddizioni del regime del capitalismo amoroso nel fatto che le donne restano il bersaglio dell’industria culturale, che le costringe a trarre la percezione del proprio valore dal desiderio altrui, riproponendo sotto la maschera libertaria lo schema secolare del dominio maschile. È ancora la dialettica dell’emancipazione: la gabbia che imprigionava le donne in un controllo paternalistico le proteggeva dal trasformarsi in merci destinate a svalutarsi velocemente, e a perdere la stima di sé insieme al proprio capitale sessuale:
Le donne eterosessuali della classe media non sono mai state così sovrane sul loro corpo e le loro emozioni; eppure subiscono da parte degli uomini un dominio affettivo senza precedenti.
Sono tesi discutibili, perché aggiornano vecchi miti (il maschio predatore e irresponsabile, la femmina che cerca di incastrarlo) e perché ignorano alcune delle più vistose trasformazioni simboliche della nostra cultura: l’assunzione da parte di molte donne di un modello di sessualità virile, la crescente feticizzazione del corpo maschile nell’immaginario pubblico, la moltiplicazione e la crescente visibilità sociale di coppie in cui il partner femminile è più anziano e autorevole. Dal punto di vista di Illouz, tuttavia, questi fenomeni sono eccezioni elitarie, e non testimoniano alcuna trasformazione reale nella vita quotidiana dell’umanità media che è il solo legittimo oggetto della sociologia critica. Ma più ancora delle statistiche, a essere persuasive sono le testimonianze dei soggetti sofferenti. Illouz colleziona interviste, lettere alla posta del cuore dei grandi quotidiani, discussioni sui blog, brani dai manuali di self-help e dalle guide al dating, commentandoli con la stessa sensibilità con cui interpreta le trame di matrimonio dei romanzi ottocenteschi. Ne emerge un doloroso ritratto di donna vinta dal mercato sessuale, a metà strada tra un’eroina romantica e Bridget Jones.
Nostalgia ed emancipazione
A questi dilemmi non seguono soluzioni. L’unica raccomandazione esplicita di Illouz è quella di coltivare l’intensità emotiva per compensare la razionalizzazione crescente (un capitolo meno originale del libro, che riprende i temi di Intimità fredde, è dedicato allo smorzarsi delle passioni nel cinismo, nell’ironia e nella disillusione). Per il resto, l’analisi si limita a svelare la dialettica dell’individualismo senza temere di infrangere molti tabù progressisti, nella convinzione che le conquiste della modernità siano comunque irrinunciabili. Per difendersi dai malintesi, nell’epilogo del libro, Illouz difende accoratamente l’importanza dei valori moderni: l’uguaglianza tra i sessi, l’autonomia, la libertà degli stili di vita, la legittimità del piacere. E ricorda come, nelle società del passato, la venerazione accordata alle donne (e solo a certe donne[14]) fosse anche il risarcimento simbolico della loro dipendenza materiale e legale. Queste precisazioni non bilanciano però l’impressione che, quasi suo malgrado e proprio in forza della sua finezza, il libro trasmetta una nostalgia malinconica: il bilancio non rende piena giustizia a ciò che la rivoluzione sessuale ha fatto per l’emancipazione di tutti. Del resto, contro la tentazione di rivivere l’amore di ieri, basterebbe pensare che i romanzi di Jane Austen si interrompono sempre sulle soglie di un matrimonio, dopo di cui l’idea di “chiarezza morale” cede il passo a un’inquietante spazio nero. Questo silenzio segnala un limite importante del modello di sociologia comparata costruito da Illouz, che diventa ingannevole nel momento in cui imposta il confronto tra i due paradigmi in modo retrospettivo e asimmetrico: privilegiando il peso della libera scelta rispetto a quello del legame coatto, le mortificazioni del rifiuto e dell’abbandono a scapito di quelle dell’unione e della fedeltà imposta in modo diseguale, finisce per occultare il vero focolaio della sofferenza amorosa premoderna. Nell’Ottocento l’amore faceva meno male alle ragazze in età da marito che alle mogli infelici come Emma Bovary e Anna Karenina.
Ma il libro di Eva Illouz è bello proprio perché disturba, e perché non scioglie tutti i dubbi, sollevando anzi nuovi interrogativi. Leggerlo è un vero piacere intellettuale, misto di quel senso di potenziamento e di sollievo che, secondo l’etica spinozista, si accompagna alla conoscenza adeguata delle passioni umane. Forse un naturalista come Spinoza avrebbe sorriso davanti al progetto di risolvere gli affetti in un progetto di patologia sociale, ma la fiducia nel potere di emancipazione del sapere resta la stessa. Comprendere come esperienze private, di cui ci credevamo individualmente responsabili, facciano parte di un complesso sistema delle cause di cui siamo solo gli attori finiti e parziali, ci mortifica nella nostra pretesa ingenua di autodeterminazione, ma contribuisce a liberarci in un modo più profondo.
[1] In Italia è stato tradotto solo Intimità fredde, Milano, Feltrinelli, 2007.
[2] Sotto questo aspetto la ricerca di Eva Illouz ricorda la storia della sensibilità praticata da Günther Anders, che affrontava i sentimenti come «universali contingenti» (Amare, ieri, Torino, Bollati Boringhieri, 2004).
[3] In particolare alla scuola neofrancofortese di Axel Honneth, cui si deve il programma sulle patologie del riconoscimento. La formula “secolarizzazione della teodicea” è stata coniata da Ernst Cassirer a proposito del pensiero sociale di Rousseau. Grazie a questa svolta, la teoria sociale può assumere una portata politica: riconoscendo cause storico-sociali dietro a guerre, disuguaglianze, schiavitù, oppressione, povertà, e persino catastrofi solo parzialmente “naturali”, come epidemie, terremoti e disastri ecologici, dischiude per la prassi umana un margine di intervento molto più ampio.
[4] Illouz riconosce che la posizione di Freud a proposito della responsabilità personale non è riducibile a questa caricatura, e alla fine del libro ringrazia la sorella psicanalista per le discussioni che hanno arricchito la sua riflessione. Ciononostante, la polemica contro “psicanalizzazione” della sofferenza amorosa resta uno dei temi principali del suo libro. L’approccio sociologico con cui Illouz affronta il fenomeno dell’amore è molto vicino a quello che la scuola francese di Alain Ehrenberg ha applicato alla depressione, alle dipendenze, e al culto della performance, anche nel rilevare le contraddizioni implicite nell’individualismo moderno.
[5] La distinzione, va ricordato, è solo idealtipica. Relazioni performative sopravvivono anche in regime di autenticità, e sono implicite, di fatto, in ogni atto legale, dal matrimonio all’unione civile.
[6] Thomas Hobbes, Leviathan, cap. X.
[7] Questo è il significato profondo dell’equazione tra amore e snobismo, che Girard sviluppa in Menzogna romantica e verità romanzesca. Non si tratta di una semplice idiosincrasia proustiana, ma di una descrizione efficace di come l’amore moderno sia diventato una delle esperienze primarie di valorizzazione dell’io.
[8] Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta.
[9] L’assenza è tanto più sorprendente in un libro che esalta il valore sociologico della letteratura, e che potrebbe trovare nelle Particelle elementari il perfetto corrispettivo idealtipico dell’universo amoroso di Jane Austen. Nell’eventualità che il silenzio non dipenda da un pregiudizio ideologico, la coincidenza tra i due pensieri è ancora più interessante.
[10] L’etimologia popolare spiega alla lettera il concetto di “sfiga”, come la condizione di chi è privato del sesso femminile.
[11] http://www.lorealparis.ca/histoire.aspx. Nella versione originale francese il motto è “je le vaux bien”, ossia “lo valgo”, “me lo merito” (l’investimento, la cura, la spesa per il prodotto). La casa produttrice lo vanta come una dichiarazione di autostima e di indipendenza femminile. In realtà, semplificando il messaggio, la traduzione italiana ne ha fatto emergere il sottinteso hobbesiano e girardiano: “io valgo perché tu (che mi guardi) mi desideri”. Tra i tanti esempi di marketing centrato sul concetto di capitale estetico: http://www.yvesrocher.fr/control/category/~category_id=B1318.
[12] Michel Houellebecq, Estensione del dominio della lotta.
[13] http://www.youtube.com/watch?v=yHaDhyklDUI. Don Giovanni, regia di Michael Haneke, direzione musicale di Philippe Jordan, con Peter Mattei. Lo spettacolo rappresentato nella primavera del 2012 all’Opéra Bastille (ambientato nel mondo della finanza, su uno sfondo che ricorda le hall dei grandi alberghi, e in cui Zerlina e Masetto lavorano come addetti alle pulizie) riprendeva un allestimento del 2006, anteriore quindi al caso Strauss-Kahn.
[14] Il discorso di Illouz è esplicitamente limitato alle classi medio-alte occidentali.
14 febbraio 2013 alle 10:48
14 febbraio 2013 alle 14:00
14 febbraio 2013 alle 14:08