Giuliano Guerzoni lo credevano sulla Costa Azzurra francese, a Montecarlo o addirittura a San Salvador. In qualsiasi posto dove si possa spendere il tempo tra donne, gioco e lusso. Giuliano Guerzoni, 36 anni, di Strevi, un piccolo comune in provincia di Alessandria, l' autista delle Poste sparito il 27 giugno dopo il clamoroso furto di otto miliardi in contanti e assegni e ricercato per peculato, non ha invece mai raggiunto quei paradisi esotici. E' finito sepolto in una buca profonda quasi un metro, sotto un albero di nocciole, nella campagna di Bussoleno, in Val di Susa. Con lui, in quella tomba artigianale, carabinieri e polizia ieri pomeriggio hanno trovato anche Enrico Ughini, 40 anni, ex postino, misteriosamente sparito da Felizzano, un altro centro dell' Alessandrino alla fine di maggio e sospettato dalla Squadra Mobile di essere stato il complice di Guerzoni nel colpo miliardario. Entrambi trafitti da due pallottole sparate al torace e poi sepolti uno sopra all'altro in quella buca sotto l' albero di nocciole, vittime quasi certamente di una lite per la spartizione del bottino. In un boschetto della località Petronilla, a solo un chilometro dall' abitazione di Domenico Cante, "lo scambista", ovvero l' uomo incaricato di ritirare i sacchi postali dai diversi uffici che aveva accompagnato Guerzoni nel turno del pomeriggio del 26 giugno, il giorno del "colpaccio". Anche Cante era sospettato del furto e dopo due interrogatori era stato denunciato a piede libero per peculato. Subito dopo la scoperta dei due cadaveri Cante è stato interrogato a lungo dalla polizia che ha anche minuziosamente perquisito la sua abitazione di Bussoleno. Probabilmente Guerzoni e Ughini sono stati uccisi lo stesso giorno del furto. L' autista indossava ancora la divisa delle Poste che portava il 26 giugno. A scoprire i cadaveri poco dopo le 13 di ieri è stato un contadino della zona. L' uomo che stava raggiungendo la sua piantagioni di peri, passando accanto al boschetto di nocciole ha notato la terra smossa. Ha telefonato ai carabinieri della Compagnia di Susa che poco dopo estraevano da quel campo i due cadaveri. Non è stato difficile identificare quei corpi sporchi di fango e trapassati dai proiettili. Nelle tasche Guerzoni e il suo amico avevano le carte d' identità. Il ritrovamento dei due cadaveri ha dato un' immediata e tragica svolta all' inchiesta su quello che sino a ieri era considerato "un colpo perfetto". A scoprire la mattina del 27 giugno che i dieci sacchi ritirati dai diversi uffici postali nel pomeriggio del giorno prima erano stati sostituiti con altri colmi di carta straccia e di ritagli di giornali e libri era stato il cassiere della sede centrale delle Poste di Torino che avrebbe dovuto ritirare gli otto miliardi. Gli investigatori della Squadra Mobile avevano immediatamente rintracciato i trenta dipendenti che avevano lavorato nei tre turni di quel mercoledì ma i loro sospetti si erano immediatamente addensati su Giuliano Guerzoni e Domenico Cante, rispettivamente autista e "scambista" del turno del pomeriggio. Cante, il giorno dopo, si era regolarmente presentato al lavoro. Guerzoni invece era sparito. Nella mansarda che abitava a Strevi la polizia aveva trovato una sveglia trafitta da un pugnale e attaccata al muro. L' addio di un travet ad una vita scandita dal cartellino. In uno dei sacchi pieni di carta avevano anche scovato l' ultima sua busta paga. Cante, sospettato di essere il complice, era stato colto da un attacco cardiaco durante il primo interrogatorio ed era finito in ospedale. Dimesso aveva ripetuto di essere innocente, di non essersi accorto dello scambio. Salvatore Mulas, il capo della Squadra Mobile, e i suoi uomini avevano però ricostruito la dinamica del "colpaccio". Guerzoni aveva preparato dieci sacchi falsi, completi di sigilli e cartellini e li aveva sostituiti dopo aver ritirato l' ultimo di quelli veri dagli uffici postali periferici. Era stato però tradito da una sorpresa. All' ultimo ufficio gli era stato consegnato un pacco doppio. Lui e il complice avevano dovuto disfarlo e avevano dimenticato due "assicurate". Un particolare che li aveva traditi. E la Squadra Mobile aveva già individuato il "terzo uomo", Ughini, che aveva aiutato Guerzoni a scaricare il bottino prima di riportare il furgone al deposito. Ieri pomeriggio il colpo di scena e il ritrovamento dei due ricercati che tutti credevano all' estero a godersi i miliardi. Miliardi che sono davvero spariti.
Ivan Cella
Erano gli ultimi due latitanti del gran colpo alle Poste di Torino.
Un piano quasi perfetto che, il 26 giugno dell' anno scorso, fruttò due miliardi e mezzo di lire in contanti, mai più trovati, e costò la vita a due degli "uomini d' oro", Giuliano Guerzoni ed Enrico Ughini, assassinati con ogni probabilità dai complici. Si erano rifugiati in Albania: arrestati una prima volta, avevano approfittato della rivolta di marzo per evadere dal carcere di Tirana e sparire nuovamente. Ma la classica fuga in Sudamerica, questa volta, è stata fatale a Ivan Cella, 42 anni, ex gestore di una birreria a Susa ed esperto di armi, accusato di quel duplice delitto insieme al postino Domenico Cante (in carcere), e alla sua fidanzata ventitreenne Cristina Quaglia, ricercata per favoreggiamento. Li hanno presi venerdì 22, a Cochabamba, in Bolivia, una città di 200 mila abitanti a oltre 2500 metri d' altitudine, trecento chilometri a sud est da La Paz. Espulsi dal paese giovedì, sono stati imbarcati su un volo per Santa Cruz e di lì, ieri, hanno raggiunto Miami per poi imbarcarsi per l' Italia. Erano arrivati su quel pianoro della cordigliera a fine marzo, dopo una fuga senza fine attraverso l' Albania in fiamme e gli aeroporti di Istanbul, Amsterdam, San Paolo do Brasil e Santa Cruz: fino a Cochabamba. Fino a otto giorni fa, quando un reparto della polizia guidata dal comandante regionale Angel Moncada, affiancato da due sottufficiali dei carabinieri, ha bussato alla porta di una casetta ad un piano, nel rione periferico di Sarco, che Cella e la sua donna avevano preso in affitto da una signora per 200 dollari al mese. I due latitanti hanno ancora tentato il tutto per tutto, mostrando passaporti falsi intestati ad Alberto Filosi e Patrizia Baselico. Ma è stato inutile. Da tempo, infatti, da circa due mesi, la Procura di Torino e gli investigatori li avevano localizzati tramite l' Interpol. Dopo l' arresto, con l' accusa ufficiale di "falso ideologico e sostituzione di identità", Ivan Cella e Cristina Quaglia sono stati brevemente interrogati in presenza del console onorario italiano a Cochabamba, Carlo Schiavi.
"Ho trovato i due - racconta il console - in buone condizioni, anche se la ragazza appariva magra e patita. Mi hanno spiegato da dove erano arrivati e che erano stati arrestati perché in possesso di passaporti falsi, che avevano comprato in Albania. 'Siamo venuti qui a Cochabamba in cerca di un lavoro, per vivere qui' , hanno detto".
Segno che non avevano più il bottino? "Non saprei, ma di sicuro avevano una buona disponibilità economica perché, quando ho chiesto loro se avessero bisogno di denaro per comprarsi da mangiare in carcere, dove il cibo scarseggia davvero, mi hanno risposto: 'No, da questo punto di vista non abbiamo problemi' . E, alla domanda di un poliziotto che chiedeva se volessero tornare in Italia, hanno risposto di sì". All' uscita dal carcere, i due sono stati avvicinati per qualche istante dai cronisti locali. "Siete mafiosi?", è stata la domanda. "No, e non abbiamo ammazzato nessuno", ha risposto Ivan Cella. Ora il birraio di Susa raggiungerà in carcere l' amico Domenico Cante, l' altro principale accusato dell' omicidio di Guerzoni e Ughini e del colpo miliardario. Fu proprio Cante, assieme alle due vittime poi trovate uccise a colpi di pistola, quindici giorni dopo, in un boschetto della Val di Susa, a sostituire a bordo di un furgone delle Poste durante il giro di ritiri e consegne i sacchi del denaro con altri contenenti carta straccia. Dopo la scoperta dei cadaveri Cante venne fermato per omicidio mentre Ivan Cella, raggiunto dalla stessa accusa ma solo indagato, ne approfittò e fuggì con la fidanzata. Tre settimane più tardi, a fine luglio, venne trovata la sua "Croma" bianca abbandonata nel parcheggio di un noleggio auto davanti all' aeroporto di Nizza, in Costa Azzurra.
Intercettando le telefonate, spesso in codice, ad amici e parenti, gli inquirenti riuscirono a rintracciare i due a Tirana: erano nascosti in un alloggetto in un quartiere popolare e Cella, per sbarcare il lunario o per non dare l' idea di avere con sè troppi soldi, si era rimesso a fare il suo mestiere, l' elettricista. A metà dicembre i due vennero arrestati. Ma le pratiche di estradizione dall' Albania andarono per le lunghe finchè, tre mesi più tardi, scoppiò la rivolta. Il carcere di Tirana venne preso d' assalto e tutti i detenuti, compresi Ivan Cella e Cristina Quaglia, scapparono.
Poi, quasi ricalcando la trama di un romanzo, i due fuggiaschi hanno viaggiato per mezzo mondo nel tentativo, vano, di far perdere le loro tracce per sempre.
Domenico Cante
Domenico Cante, 48 anni, muore nel carcere delle Vallette. Alla lettura della sentenza di primo grado, aveva sventolato una delle sue manone per richiamare l’attenzione: "Non uscirò vivo dal carcere. Morirò molto prima di aver scontato tutti questi anni". Più di 28. Se non una vita, almeno mezza. C’è chi si rassegna, chi no. Domenico Cante apparteneva a quest’ultima categoria di detenuti. Un infarto se l’è portato via l’altra notte, dopo una vana corsa verso il pronto soccorso del Mauriziano.
Il terzo infarto della sua esistenza che aveva svoltato improvvisamente nell’estate 1996, dopo l’inconsueto e geniale colpo alle Poste, che lo vide prima gregario, poi protagonista per aver liquidato in una roulotte, insieme al complice e amico di sempre Ivan Cella, i due ideatori e primi esecutori della sostituzione "in corsa d’opera" del denaro versato per l’Ici con sacchi di carta straccia.
Giuliano Guerzoni e Enrico Ughini sembravano spariti verso un’altra vita, quella sognata nelle loro nebbie padane di provincia, dorata come il sole e le donne sudamericane. E invece erano finiti sotto pochi centimetri di terra, a settecento metri in linea d’aria dalla casa dell’autista del furgone, in Valsusa.
Cante è morto a 48 anni d’età, a pochi giorni dall’aver dato con successo un esame di idoneità per avvicinarsi al diploma di geometra. Non si può dire che cercasse la morte per quanto, cardiopatico e diabetico, fosse diventato anche bulimico. Divorava la fame e il bisogno di tutti i detenuti, per lui assoluto, di respirare aria pura, magari pure quella inquinata, diversa comunque dall’aria stagnante della vita quotidiana dietro le sbarre. E divorava istanze di differimento pena o arresti domiciliari, codici e avvocati.
All’ultimo legale, Mauro Carena, aveva appena dato l’incarico di preparare la richiesta di revisione del processo. Eppure aveva confessato, a ruota di Cella di cui si era descritto come l’eterno succube: "Sì, ho ammesso anch’io dopo di lui, ma non è andata come avevamo raccontato in procura all’inizio del processo in Corte d’assise. Io non ho ucciso".
L’avvocato non dice molto di più. Solo un accenno al bottino (2 miliardi e 52 milioni di lire in contanti, un po’ poco per definire il quartetto gli uomini d’oro del colpo alle Poste). "Un bottino che è sparito. - chiosa il legale -. Posso solo aggiungere qualcosa che mi ha colpito nelle parole di Cante: "Avvocato, quei soldi non li più rivisti, non li ho, ma lei sarà pagato". Come se qualcun altro fosse in grado di provvedere al posto suo".
Hanno confessato gli "uomini d'oro", autori del furto miliardario alle poste di Torino e della brutale eliminazione dei due loro complici. Ieri alla seconda udienza del processo che si svolge davanti ai giudici della Corte di Assise e' dapprima crollato Ivan Cella, gia' titolare di una birreria a Susa, poi e' stata la volta di Domenico Cante, uno dei tre postini che idearono il colpo, messo a segno il 26 giugno del '96. Finora contro i due protagonisti di una vicenda degna di un film di Jean Luis Trintignant c'erano solo indizi. Cella e Cante avevano sempre negato ogni accusa. Ieri mattina la svolta clamorosa: "Ammetto le mie responsabilita", ha esordito l'ex barista dopo aver chiesto alla Corte di rendere quella che in termine giuridico si definisce una "dichiarazione spontanea". Poi, parlando lentamente e a voce bassa, ha raccontato le fasi del furto e dell'omicidio a colpi di pistola di Giuliano Guerzoni ed Enrico Ughini, il primo dipendente e il secondo baby - pensionato delle poste, chiamando in causa anche Cante. "Temevamo che potessero essere dannosi", ha spiegato. Un omicidio, a quanto sembra, premeditato: "La buca in cui li seppellimmo l'avevamo gia' scavata verso il 20 maggio", ha infatti detto Cella. L'uomo scappo' poi in Albania, dopo che il 13 luglio del '96, in un bosco della valle di Susa, furono trovati i due cadaveri. Cante, invece, venne arrestato quello stesso giorno. La decisione di confessare e' maturata nell'ex barista dopo la prima udienza e dopo un colloquio con la sua compagna, Cristina Quaglia, imputata di favoreggiamento. I due, tra l'altro, hanno annunciato il loro matrimonio. Vistosi ormai incastrato, Cante, davanti ai giudici, ha deciso di fare la stessa scelta. E cosi', dopo avere chiesto una breve pausa dell'udienza per parlare con i difensori, ha fornito la sua verita'. Una versione dei fatti diversa in molti punti da quella del complice: infatti Cante ha cercato di alleggerire le sue responsabilita' nell'omicidio, lasciando intendere che lui non l'aveva premeditato e che maturo' nel corso di una discussione. Secondo Cante, il bottino del colpo era da dividere in tre parti: a Ivan Cella doveva toccarne una piccola, perche' aveva avuto il compito di procurare soltanto i documenti per fare espatriare Guerzoli e Ughini. "Ma ci fu una discussione - ha ancora detto Cante -, qualcuno sparo' per primo e io sparai perche' ebbi paura". Che fine ha fatto il bottino (circa 5 miliardi solo in minima parte recuperati)? Se e' vera la versione fornita da Cella, si e' perso. L'ex barista ha infatti raccontato: "Ho investito i soldi in alcune finanziarie albanesi", proprio quelle poi finite miseramente. Cella fu arrestato a Tirana nel dicembre del '96. A marzo evase approfittando dei tumulti che scossero il paese balcanico dopo il crac delle finanziarie. A fine agosto gli inquirenti lo ritrovarono in Bolivia. Cristina Quaglia, sua compagna, lo segui'. Cella ha detto sempre che lo fece solo "perche' credeva che io fossi innocente", e oggi i giudici hanno deciso di scarcerarla.
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