Passa la vita, inconosciuta
e ogni idea
che ci si possa formare
è sbagliata.
Io sono quello che non sono
Io vorrei essere quello che sono
ma è impossibile essere quello che si è
chi dice di esserlo
per primo non lo è.
Quanti sbagli ho fatto nella vita
e in quel momento ero convinto
di fare sempre la cosa più giusta,
come chiunque altro
in qualunque momento
in ogni cosa che ha fatto.
D’ora in poi non farò più sbagli
adesso tutto mi è chiaro,
come anche mi era nel passato,
solo che allora mi ero sbagliato
ma adesso sono nel giusto.
Quante fantasie, quante idee
che ho lasciato morire nel tramonto
ma adesso vedo i colori
d’ora in poi la mia convinzione
sarà forza, sarà acciaio
ecco io sarò un guerriero
con un ultracuore palpitante
sotto l’armatura
le mie arterie cyberintrico di fili di ferro
grondanti sangue senza che io senta dolore
sopporterò tutto con la volontà
ucciderò, e fortissimamente amerò
sarò eternamente Io.
E in questa iperconvinzione universale
sottile la mia percezione
di essere un coglione
un satellite di minchiate
alla deriva
nello spazio siderale.
mercoledì 31 ottobre 2007
martedì 30 ottobre 2007
domenica 28 ottobre 2007
Amor di perdizione, Camilo Castelo Branco
Diciotto anni, quel rossore dorato e scarlatto del mattino della vita
quelle grazie del cuore che ancora non sogna di frutti e si inebria
del profumo de fiori, dell'amore di speranza di quell'età
il passaggio dal seno della famiglia, dalle braccia della madre
dai baci delle sorelle alle più dolci carezze della vergine
che lieve gli si schiude accanto
come fiore della stessa stagione e dallo stesso aroma
e nella stessa ora della vita
E bandito dalla patria, dall'amore, dalla famiglia
mai più il cielo del Portogallo, né madre né un amico
amò, si perdette e morì amando
Chi mai vide una vita amorosa e non la vide affogata
nelle lacrime della sventura o del pentimento
a quale oscurità mio Dio porta la dedizione al sentimento
che un ragazzo perdette la libertà e la pace
per amore di una donna, la creatura più plasmata dalle dolcezze della pietà
che porta con sè dal cielo un riflesso della divina misericordia
che ci diede la vita ma non di discernere quale fragile vetta di gioia
si affaccia su un abisso di dolore
amò, si perdette e morì amando
Nel 1846 sposa Joaquina Pereira che in breve lascia con una figlia
conosce Isabel Candia, una suora, Maria do Adro morta tisica
Patricia Emilia rapita e abbandonata con una bambina
Ana Placido, sposa di un uomo deciso da suo padre
sarà la sua amante e per il reato di di adulterio segregata nelle carceri
Camillo si consegna alla giustizia e finisce nella stessa prigione
quando vengono liberati, hanno due figli, uno demente, l'altro vagabondo
oppresso dalle difficoltà economiche
si consuma in una sfrenata attività letteraria
diventato cieco si uccide con un colpo di pistola
amò, si perdette e morì amando
quelle grazie del cuore che ancora non sogna di frutti e si inebria
del profumo de fiori, dell'amore di speranza di quell'età
il passaggio dal seno della famiglia, dalle braccia della madre
dai baci delle sorelle alle più dolci carezze della vergine
che lieve gli si schiude accanto
come fiore della stessa stagione e dallo stesso aroma
e nella stessa ora della vita
E bandito dalla patria, dall'amore, dalla famiglia
mai più il cielo del Portogallo, né madre né un amico
amò, si perdette e morì amando
Chi mai vide una vita amorosa e non la vide affogata
nelle lacrime della sventura o del pentimento
a quale oscurità mio Dio porta la dedizione al sentimento
che un ragazzo perdette la libertà e la pace
per amore di una donna, la creatura più plasmata dalle dolcezze della pietà
che porta con sè dal cielo un riflesso della divina misericordia
che ci diede la vita ma non di discernere quale fragile vetta di gioia
si affaccia su un abisso di dolore
amò, si perdette e morì amando
Nel 1846 sposa Joaquina Pereira che in breve lascia con una figlia
conosce Isabel Candia, una suora, Maria do Adro morta tisica
Patricia Emilia rapita e abbandonata con una bambina
Ana Placido, sposa di un uomo deciso da suo padre
sarà la sua amante e per il reato di di adulterio segregata nelle carceri
Camillo si consegna alla giustizia e finisce nella stessa prigione
quando vengono liberati, hanno due figli, uno demente, l'altro vagabondo
oppresso dalle difficoltà economiche
si consuma in una sfrenata attività letteraria
diventato cieco si uccide con un colpo di pistola
amò, si perdette e morì amando
sabato 27 ottobre 2007
lunedì 22 ottobre 2007
sabato 20 ottobre 2007
giovedì 18 ottobre 2007
corona's deboscially correct
“Non mi scandalizzo.
Il dolore è dolore, anche se ci metti sopra dei soldi non sparisce, fa sempre male
Sarà pure una coincidenza, ma in uno dei giorni più cupi di questa storia, quello ventoso del funerale in Tunisia, spunta Fabrizio Corona, il re delle paparazzate più fatue e dei veleni in formato Nikon digitale. Compare con gli stivali pitonati a punta, il gessato scuro, la pelle abbronzata, le catene d’oro al collo, i capelli raccolti e inzuppati nel gel, all’aeroporto di Malpensa, settore imbarchi internazionali, volo Tunis Air delle 17, destinazione Tunisi.
E’ a metà della fila, con borsa Vuitton, mentre davanti a lui stanno passando i controlli di polizia i membri superstiti della famiglia Castagna, il sindaco di Erba, una manciata di assessori, due amiche di famiglia, una decina di fotografi spediti dai settimanali, sei operatori delle maggiori emittenti tv, una dozzina di giornalisti della carta stampata. C’e’ tensione. I giornalisti non perdono di vista i Castagna. Gli amici della famiglia fanno argine. Qualcuno prova a forzarli. Ci sono spinte, proteste. Nella stiva sono già state imbarcate le due bare, quella di Raffaella e quella di suo figlio, il piccolo Youssef, ma nella superficie degli imbarchi la vita fa finta di niente.
Dieci metri più indietro Fabrizio Corona e’ al telefonino. Secondo le intercettazioni disposte dal pm Henry John Woodcock, quello dell’inchiesta su Vallettopoli che lo tiene sotto controllo da ottobre e lo arresterà un mese e mezzo più tardi, sta parlando con Francesco Coco, il calciatore.
Corona: “Oh, mi sto imbarcando, ci vediamo mercoledì. Torno mercoledì. Vado in Tunisia”.
Coco: “Beato te”.
Corona: “No, vado a fare quella roba di Azouz. Sai quello che gli e’ morto la moglie e il figlio… Ho chiuso l’esclusiva per “Chi” e l’intervista per Costanzo… Quindi vado giù che c’e’ il funerale domani mattina”.
Coco: “Ah…”.
Corona: “Non e’ una bella roba. Quindi ritorno mercoledì, così chiudiamo tutto. Va bene?”.
Fabrizio Corona sembra finto e invece e’ vero. Sembra la caricatura di un gangster, con le giacche a righe, gli anelli, i tatuaggi, i muscoli, le pupe, la Bentley da 530 cavalli. Invece di mestiere produce cibo per casalinghe, sogni per i parrucchieri, brufoli di invidia per le ragazzine E’ nato a Catania il 29 marzo 1974. E’ cresciuto a Milano in mezzo ai giornali, magari anche soffocato dai giornali, e perciò con la voglia strafottente di avvelenare la loro anima per dispetto e per godersi le conseguenze. Il che potrebbe avere anche una spiegazione psicanalitica, vai a sapere, visto che suo padre Vittorio, invece i giornali li amava, li inventava, li accudiva.
Ho conosciuto Vittorio Corona ai tempi in cui creò “Moda” e “King”, i più allegri e intelligenti mensili dei tristi Anni 80, quelli di Craxi, di Andreotti, della truffa collettiva dei Bot, della moltiplicazione del debito pubblico. In controtendenza con l’ossessione del denaro e del cinismo montante, i suoi giornali giocavano a sorpresa con il nuovo star system televisivo, il divismo da tabloid. Sceglievano l’ironia anche nelle foto: mai enfasi, ma tagli di luce spiazzanti, E nelle storie scritte una chiave per trasformare anche la vita quotidiana in un’avventura e una scoperta.
L’ho rivisto mentre, nei mesi elettorali del 1994, fabbricava la prima pagina de “La Voce”, il quotidiano appena fondato da Indro Montanelli. Vittorio lavorava fino all’alba. C’erano pochi soldi e zero mezzi. Per affetto teneva il vecchio all’oscuro di tutte le difficoltà. Ogni tanto – visto che Indro fronteggiava l’insonnia dentro alla sua doppia stanza del Residence Maria Teresa con la sola compagnia della sua Olivetti Lettera 22 - lo chiamava di notte per rassicurarlo: “Ce la faremo”.
“La Voce” campò pochi mesi, a cavallo tra il 1994 e il ’95 causa pochi lettori, poca pubblicità, “nemici spietati”. Chiuse senza rancori, Montanelli ringraziando i lettori, Corona “gli amici coraggiosi”. Perché Vittorio era serio nel fare e nel disfare. Non gli piaceva vivere di risentimenti. Era troppo colto, elegante, per bene. Detestava litigare, detestava apparire. Aveva passioni gentili e ironia siciliana. Aveva buon gusto.
Dunque da dove viene suo figlio? Da dove arrivano le sue smanie? Da quale idea del mondo e della professione?
Un giorno di giugno a Milano, me lo racconta in una conversazione con adrenalina e un po’ di prosopopea, com’è nel carattere. E’ per di più il suo periodo di massimo splendore mediatico. Sta in classifica con il memoriale “La mia prigione”, cronaca dei suoi 80 giorni nel carcere di Milano per l’inchiesta del pm Woodcock. E’ in cima a tutti i rotocalchi. Ha raddoppiato (“rettifico: triplicato!”) il fatturato della sua agenzia. Ammiratrici ancora stazionano sotto alle sue finestre, in zona Garibaldi, Milano, ad aspettare che lui lanci le sue mutande griffate Corona’s.
Parla spavaldo, parla furente. Parte come un treno che non si ferma: “Mi piacerebbe sapere perché se Enrico Mentana fa quattro trasmissioni con Azouz e il pieno di ascolti e’ un grande giornalista. Se io invece gli organizzo le foto e una intervista, allora sono un figlio di puttana che lo sfrutta.
“Bruno Vespa che campa su Cogne da cinque anni allora cos’e’? Un giornalista investigativo, un raccontatore di storie italiane, o uno sfruttatore? Io dico che siamo tutti uguali, siamo giornalisti a caccia di scoop. Facciamo tutti lo stesso mestiere e il più svelto vince. Il fine giustifica i mezzi.
“Ti racconto. Quando Azouz Marzouk compare su tutti i giornali, mi sta simpatico alla prima occhiata. Mando un paio dei miei a fotografarlo. Un giorno ci parliamo al telefono. Ci vediamo. Ci conosciamo. Mi racconta la sua storia. Mi convince. No, non ci credo che sia uno spacciatore. Non prende un grammo di roba, mai. E’ pulito. E’ per bene. E’ una vittima. In più ha la faccia che buca il video. E siccome penso che sia un buon investimento commerciale, e io al denaro ci tengo moltissimo, gli prometto che voglio fare una operazione su di lui. Lo propongo all’Isola dei famosi che mi dice prima di sì, poi no, poi ni. Io insisto, aspetto e continuo a provarci.
“Intanto c’è questa storia del funerale in Tunisia. Mi imbarco sul volo con tutta la truppa di giornalisti. Quando arrivo, Azouz mi ospita a casa sua. Ci intendiamo al volo: accetta di commercializzare. Non mi scandalizzo. Il dolore è dolore, anche se ci metti sopra dei soldi non sparisce, fa sempre male.
“Quindi è vero, lo ammetto: per le foto gli ho dato dei soldi. E allora? Non quelli che hanno scritto, 15 mila euro, ma siamo matti? Meno della metà, meno dei 5 mila che gli ha dato qualche televisione. E dopo i soldi ho fatto fare le foto. Comprese quelle “rubate”, durante la notte, nella camera ardente. Lo ammetto. Ho forzato un po’, ma è nel mio carattere.
“In televisione Azouz ce lo vedo benissimo. Perché? Perché la televisione è quella roba lì. Può non piacere, può fare paura, ma ormai è così. In Italia personaggi veri ce ne sono pochissimi e la televisione ha un bisogno continuo di personaggi per tenere la gente attaccata alle storie. Per questo la tv li pesca dalla cronaca. E più la cronaca è efferata, più il caso è scandaloso, meglio è. Prendi Lapo Elkann. Senza il transessuale non vale molto. Ma dopo la notte con Patrizia, diventa una bomba.
“Guarda, a me la famiglia Castagna fa anche pena, per carità. Poveretti. So cosa vuol dire finire in pasto al pubblico. Ma questo succede a tutti i protagonisti della cronaca da quando esiste l’opinione pubblica. La gente vuole sempre più sangue, e la tv provvede. Non so se è giusto, ma è così.
“Non so neanche perché sono diventato un esempio per tanti ragazzini. Forse perché sono uno che non sta alle regole, che non si piega, che non ha paura dei moralisti. Però non ci tengo a essere un esempio. Non mi interessa. Non ho niente da insegnare: i miei valori sono l’amicizia e poi il denaro. Non è molto. E’ quello che sono: magari sono solo uno stronzo”
Fabrizio Corona non scrive, non legge, non fotografa: “Non so nemmeno come e’ fatta una macchina fotografica e non me ne frega niente”. Non sa che farsene della vita quotidiana e l’unica scoperta che lo eccita è il tradimento. Fabrizio Corona maneggia veleno. Inventa notizie. Spedisce fotografi in caccia. Vende la vita degli altri. Se ne vanta, gli piace.
Quel giorno a Milano mi ha detto: “Limiti? Nessuno. Se i coinvolti sono famosi, lavorano con il pubblico e sono diventati ricchi grazie al pubblico, nessun limite. Perché loro lavorano anche quando vivono”. E quindi: “Queste sono le regole del gioco: loro vivono, io li fotografo, guadagniamo tutti e due”. Persino Nina Moric, sua ex moglie, 29 anni, fotomodella croata, glielo ha rinfacciato in una telefonata intercettata: “Sono soldi marci i tuoi! Soldi marci!”.
Jean Baudrillard ha scritto che il commercio delle immagini sviluppa indifferenza al mondo reale, come una malattia. Corona e’ la malattia. La sua vita vale un romanzo e il romanzo non avrà un lieto fine.
Il dolore è dolore, anche se ci metti sopra dei soldi non sparisce, fa sempre male
Sarà pure una coincidenza, ma in uno dei giorni più cupi di questa storia, quello ventoso del funerale in Tunisia, spunta Fabrizio Corona, il re delle paparazzate più fatue e dei veleni in formato Nikon digitale. Compare con gli stivali pitonati a punta, il gessato scuro, la pelle abbronzata, le catene d’oro al collo, i capelli raccolti e inzuppati nel gel, all’aeroporto di Malpensa, settore imbarchi internazionali, volo Tunis Air delle 17, destinazione Tunisi.
E’ a metà della fila, con borsa Vuitton, mentre davanti a lui stanno passando i controlli di polizia i membri superstiti della famiglia Castagna, il sindaco di Erba, una manciata di assessori, due amiche di famiglia, una decina di fotografi spediti dai settimanali, sei operatori delle maggiori emittenti tv, una dozzina di giornalisti della carta stampata. C’e’ tensione. I giornalisti non perdono di vista i Castagna. Gli amici della famiglia fanno argine. Qualcuno prova a forzarli. Ci sono spinte, proteste. Nella stiva sono già state imbarcate le due bare, quella di Raffaella e quella di suo figlio, il piccolo Youssef, ma nella superficie degli imbarchi la vita fa finta di niente.
Dieci metri più indietro Fabrizio Corona e’ al telefonino. Secondo le intercettazioni disposte dal pm Henry John Woodcock, quello dell’inchiesta su Vallettopoli che lo tiene sotto controllo da ottobre e lo arresterà un mese e mezzo più tardi, sta parlando con Francesco Coco, il calciatore.
Corona: “Oh, mi sto imbarcando, ci vediamo mercoledì. Torno mercoledì. Vado in Tunisia”.
Coco: “Beato te”.
Corona: “No, vado a fare quella roba di Azouz. Sai quello che gli e’ morto la moglie e il figlio… Ho chiuso l’esclusiva per “Chi” e l’intervista per Costanzo… Quindi vado giù che c’e’ il funerale domani mattina”.
Coco: “Ah…”.
Corona: “Non e’ una bella roba. Quindi ritorno mercoledì, così chiudiamo tutto. Va bene?”.
Fabrizio Corona sembra finto e invece e’ vero. Sembra la caricatura di un gangster, con le giacche a righe, gli anelli, i tatuaggi, i muscoli, le pupe, la Bentley da 530 cavalli. Invece di mestiere produce cibo per casalinghe, sogni per i parrucchieri, brufoli di invidia per le ragazzine E’ nato a Catania il 29 marzo 1974. E’ cresciuto a Milano in mezzo ai giornali, magari anche soffocato dai giornali, e perciò con la voglia strafottente di avvelenare la loro anima per dispetto e per godersi le conseguenze. Il che potrebbe avere anche una spiegazione psicanalitica, vai a sapere, visto che suo padre Vittorio, invece i giornali li amava, li inventava, li accudiva.
Ho conosciuto Vittorio Corona ai tempi in cui creò “Moda” e “King”, i più allegri e intelligenti mensili dei tristi Anni 80, quelli di Craxi, di Andreotti, della truffa collettiva dei Bot, della moltiplicazione del debito pubblico. In controtendenza con l’ossessione del denaro e del cinismo montante, i suoi giornali giocavano a sorpresa con il nuovo star system televisivo, il divismo da tabloid. Sceglievano l’ironia anche nelle foto: mai enfasi, ma tagli di luce spiazzanti, E nelle storie scritte una chiave per trasformare anche la vita quotidiana in un’avventura e una scoperta.
L’ho rivisto mentre, nei mesi elettorali del 1994, fabbricava la prima pagina de “La Voce”, il quotidiano appena fondato da Indro Montanelli. Vittorio lavorava fino all’alba. C’erano pochi soldi e zero mezzi. Per affetto teneva il vecchio all’oscuro di tutte le difficoltà. Ogni tanto – visto che Indro fronteggiava l’insonnia dentro alla sua doppia stanza del Residence Maria Teresa con la sola compagnia della sua Olivetti Lettera 22 - lo chiamava di notte per rassicurarlo: “Ce la faremo”.
“La Voce” campò pochi mesi, a cavallo tra il 1994 e il ’95 causa pochi lettori, poca pubblicità, “nemici spietati”. Chiuse senza rancori, Montanelli ringraziando i lettori, Corona “gli amici coraggiosi”. Perché Vittorio era serio nel fare e nel disfare. Non gli piaceva vivere di risentimenti. Era troppo colto, elegante, per bene. Detestava litigare, detestava apparire. Aveva passioni gentili e ironia siciliana. Aveva buon gusto.
Dunque da dove viene suo figlio? Da dove arrivano le sue smanie? Da quale idea del mondo e della professione?
Un giorno di giugno a Milano, me lo racconta in una conversazione con adrenalina e un po’ di prosopopea, com’è nel carattere. E’ per di più il suo periodo di massimo splendore mediatico. Sta in classifica con il memoriale “La mia prigione”, cronaca dei suoi 80 giorni nel carcere di Milano per l’inchiesta del pm Woodcock. E’ in cima a tutti i rotocalchi. Ha raddoppiato (“rettifico: triplicato!”) il fatturato della sua agenzia. Ammiratrici ancora stazionano sotto alle sue finestre, in zona Garibaldi, Milano, ad aspettare che lui lanci le sue mutande griffate Corona’s.
Parla spavaldo, parla furente. Parte come un treno che non si ferma: “Mi piacerebbe sapere perché se Enrico Mentana fa quattro trasmissioni con Azouz e il pieno di ascolti e’ un grande giornalista. Se io invece gli organizzo le foto e una intervista, allora sono un figlio di puttana che lo sfrutta.
“Bruno Vespa che campa su Cogne da cinque anni allora cos’e’? Un giornalista investigativo, un raccontatore di storie italiane, o uno sfruttatore? Io dico che siamo tutti uguali, siamo giornalisti a caccia di scoop. Facciamo tutti lo stesso mestiere e il più svelto vince. Il fine giustifica i mezzi.
“Ti racconto. Quando Azouz Marzouk compare su tutti i giornali, mi sta simpatico alla prima occhiata. Mando un paio dei miei a fotografarlo. Un giorno ci parliamo al telefono. Ci vediamo. Ci conosciamo. Mi racconta la sua storia. Mi convince. No, non ci credo che sia uno spacciatore. Non prende un grammo di roba, mai. E’ pulito. E’ per bene. E’ una vittima. In più ha la faccia che buca il video. E siccome penso che sia un buon investimento commerciale, e io al denaro ci tengo moltissimo, gli prometto che voglio fare una operazione su di lui. Lo propongo all’Isola dei famosi che mi dice prima di sì, poi no, poi ni. Io insisto, aspetto e continuo a provarci.
“Intanto c’è questa storia del funerale in Tunisia. Mi imbarco sul volo con tutta la truppa di giornalisti. Quando arrivo, Azouz mi ospita a casa sua. Ci intendiamo al volo: accetta di commercializzare. Non mi scandalizzo. Il dolore è dolore, anche se ci metti sopra dei soldi non sparisce, fa sempre male.
“Quindi è vero, lo ammetto: per le foto gli ho dato dei soldi. E allora? Non quelli che hanno scritto, 15 mila euro, ma siamo matti? Meno della metà, meno dei 5 mila che gli ha dato qualche televisione. E dopo i soldi ho fatto fare le foto. Comprese quelle “rubate”, durante la notte, nella camera ardente. Lo ammetto. Ho forzato un po’, ma è nel mio carattere.
“In televisione Azouz ce lo vedo benissimo. Perché? Perché la televisione è quella roba lì. Può non piacere, può fare paura, ma ormai è così. In Italia personaggi veri ce ne sono pochissimi e la televisione ha un bisogno continuo di personaggi per tenere la gente attaccata alle storie. Per questo la tv li pesca dalla cronaca. E più la cronaca è efferata, più il caso è scandaloso, meglio è. Prendi Lapo Elkann. Senza il transessuale non vale molto. Ma dopo la notte con Patrizia, diventa una bomba.
“Guarda, a me la famiglia Castagna fa anche pena, per carità. Poveretti. So cosa vuol dire finire in pasto al pubblico. Ma questo succede a tutti i protagonisti della cronaca da quando esiste l’opinione pubblica. La gente vuole sempre più sangue, e la tv provvede. Non so se è giusto, ma è così.
“Non so neanche perché sono diventato un esempio per tanti ragazzini. Forse perché sono uno che non sta alle regole, che non si piega, che non ha paura dei moralisti. Però non ci tengo a essere un esempio. Non mi interessa. Non ho niente da insegnare: i miei valori sono l’amicizia e poi il denaro. Non è molto. E’ quello che sono: magari sono solo uno stronzo”
Fabrizio Corona non scrive, non legge, non fotografa: “Non so nemmeno come e’ fatta una macchina fotografica e non me ne frega niente”. Non sa che farsene della vita quotidiana e l’unica scoperta che lo eccita è il tradimento. Fabrizio Corona maneggia veleno. Inventa notizie. Spedisce fotografi in caccia. Vende la vita degli altri. Se ne vanta, gli piace.
Quel giorno a Milano mi ha detto: “Limiti? Nessuno. Se i coinvolti sono famosi, lavorano con il pubblico e sono diventati ricchi grazie al pubblico, nessun limite. Perché loro lavorano anche quando vivono”. E quindi: “Queste sono le regole del gioco: loro vivono, io li fotografo, guadagniamo tutti e due”. Persino Nina Moric, sua ex moglie, 29 anni, fotomodella croata, glielo ha rinfacciato in una telefonata intercettata: “Sono soldi marci i tuoi! Soldi marci!”.
Jean Baudrillard ha scritto che il commercio delle immagini sviluppa indifferenza al mondo reale, come una malattia. Corona e’ la malattia. La sua vita vale un romanzo e il romanzo non avrà un lieto fine.
martedì 16 ottobre 2007
mercoledì 10 ottobre 2007
martedì 9 ottobre 2007
come potresti amarmi se fuggo
Ti dirò un segreto, una cosa che non insegnano nei templi: gli Dei ci invidiano, ci invidiano perché siamo mortali e ogni momento può essere l'ultimo per noi. La vita è più bella per i condannati a morte, e tu non sarai mai più bella di quanto sei adesso.
domenica 7 ottobre 2007
mercoledì 3 ottobre 2007
la vita che non so
L’unica cosa che so
è che la vita che vorrei
è la vita che non so
che mi passa accanto
oppure immagino soltanto
quella del fidanzato di shakira
di un’oligarca russo della gazprom
o di qualsiasi altra persona
e passo il giorno sognando
la perversione di morire, invecchiare
la perversione di essere un pomeriggio
un pomeriggio di autunno sulla strada per Hannover
la nostalgia di qualunque cosa
di sudare in magliette sintetiche della ddr
la nostalgia di un futuro che non avrò
di un presente che non ho
di un passato che non ho avuto mai.
Guardo l’orizzonte
e vorrei essere tutte le cose che ci sono
tutte le persone
eppure, quando ci provo a parlare
non ho niente da dire
c’è un istante, prima del presente
in cui tutto è bello, perfetto
ma poi non è così
eppure io insisto
la vita è la maggiore umiliazione
che una persona possa subire
nella desertificazione delle possibilità
che avanza ogni giorno
mentre si perlustrano le vastità
delle solitudini australi
eppure, in questa moltitudine sconfitta
nessuno è disposto a rinunciare
per quanto miserabile
a sé stesso
a cancellare tutte le sue sconfitte
i suoi dolori, i suoi vani tentativi
pur di mantenere in vita
quel flebile sogno
di una vita che nemmeno sa
è che la vita che vorrei
è la vita che non so
che mi passa accanto
oppure immagino soltanto
quella del fidanzato di shakira
di un’oligarca russo della gazprom
o di qualsiasi altra persona
e passo il giorno sognando
la perversione di morire, invecchiare
la perversione di essere un pomeriggio
un pomeriggio di autunno sulla strada per Hannover
la nostalgia di qualunque cosa
di sudare in magliette sintetiche della ddr
la nostalgia di un futuro che non avrò
di un presente che non ho
di un passato che non ho avuto mai.
Guardo l’orizzonte
e vorrei essere tutte le cose che ci sono
tutte le persone
eppure, quando ci provo a parlare
non ho niente da dire
c’è un istante, prima del presente
in cui tutto è bello, perfetto
ma poi non è così
eppure io insisto
la vita è la maggiore umiliazione
che una persona possa subire
nella desertificazione delle possibilità
che avanza ogni giorno
mentre si perlustrano le vastità
delle solitudini australi
eppure, in questa moltitudine sconfitta
nessuno è disposto a rinunciare
per quanto miserabile
a sé stesso
a cancellare tutte le sue sconfitte
i suoi dolori, i suoi vani tentativi
pur di mantenere in vita
quel flebile sogno
di una vita che nemmeno sa
Iscriviti a:
Post (Atom)